Aroma di umanità

di Bellini Anna

Qualche tempo fa sono stata contattata da un’asssociazione che si occupa di formazione e progetti interculturali per tenere un corso a un gruppo di donne sinti. Il corso è parte di un progetto che ha come sua finalità l’apprendimento dell’uso di macchinari taglia-cuci, in previsione di inserimenti lavorativi.

Una parte di me si è sentita molto contenta di assumere questo impegno e di poterlo fare, ma c’era un’altra parte di me, più nascosta e profonda, che ha provato una specie di smarrimento, di paura e questo ha provocato perplessità verso me stessa e verso il corso che dovevo tenere.

Un po’ di giorni dopo, ho incontrato Daniele Lugli, che mi ha chiesto di scrivere un breve articolo sui Rom per Madrugada. Anche questa volta sono passata dalla contentezza per la richiesta a quel senso di smarrimento che affiorava dentro di me.

Confusa da questo mio sentire, sto cercando una risposta che passi attraverso uno sguardo dentro di me, a ciò che sto facendo, a ciò che sono queste persone e… a un orizzonte più lontano.

Parto da me per essere in contatto con ciò che sono e che faccio e per mettermi dal punto di vista dell’altro, rispettando l’altro, quello che è avvenuto e avviene «intorno» a queste etnie.

Non è un compito facile quello che vorrei, non so se ci riuscirò… ma desidero provare, anche perché le due richieste che mi sono state fatte vanno ambedue nella direzione di una relazione con queste persone. Generalmente non credo al caso, ma penso che in ciò che ci accade c’è un disegno a noi sconosciuto: scoprirlo è vivere la propria vita con maggior consapevolezza.

Tra gli «zingari» di periferia

Da bambina vivevo nella prima periferia della città di Ferrara, sulla via che porta a Bologna e che allora era quasi campagna.

Di fronte alla casa in cui abitavo, dove ora sorge la chiesa della Sacra Famiglia, c’era un grande piazzale e lì si mettevano le giostre o il circo. Io ero elettrizzata dal via vai di gente, avrei voluto andare sempre di là dalla strada per stare con tutte quelle persone, vedere da vicino quando montavano i tendoni, ma soprattutto ero attratta dai suoni, dagli odori e dai colori particolari che là si potevano sentire. Mi attraeva tutta quella «baraonda» rumorosa, ma calda.

Così, da piccola ribelle quale ero, appena potevo scappavo tra quell’attraente «caos».

Un giorno, nascosta dalle siepi del mio giardino, vidi arrivare una carovana tirata da un cavallo. Ho un ricordo vivo della donna che si trovava a cassetta, portava una gonna lunga a fiori, era scalza, i capelli lunghi, spettinati, aggrovigliati tra loro, neri. Ma quello che mi impressionò, infatti non capivo cosa fosse, era un fazzolettone che portava sul petto. Incuriosita da questa «cosa» e senza dubbio attratta dal vigore e dalla sensualità che emanava quella donna, non pensando ai divieti che mi avevano imposto, attraversai la strada e le andai vicino.

Era così presa dalle cose che stava facendo che non si accorse di me. Dopo aver fermato il cavallo, scese, si sedette su una seggiolina bassa, da dentro quel fazzolettone tirò fuori un bambino, si aprì la camicetta e si mise ad allattarlo. Mentre lo allattava, gli accarezzava la testa, e prese a ninnarlo sussurrando una canzone con un linguaggio che non capivo, ma che era molto dolce.

Incantata da quella voce ricolma di tenerezza, mi sedetti a terra accanto alla donna.

Del pregiudizio che rubano i bambini e altri miti

All’improvviso mi sentii tirare per un braccio, strattonata e portata via da quel luogo che per me era un incanto e proprio per questo sapeva di favola. La mamma era molto arrabbiata, mi portò nella sua camera, mi diede due sberle e urlando mi disse che mai e poi mai avrei dovuto andare da quelle persone, quelli erano zingari! Brutta gente! Rubavano, non lavoravano, chiedevano l’elemosina e soprattutto, cosa che lei giurava di aver visto adesso fare con me, portavano via le bambine! Fu vana la mia modesta e piagnucolosa protesta, il dirle che ero stata io ad avvicinarmi e che stavo solo guardando; non contava nulla, nessuno mi credette.

Quello che mi sono sentita dire allora da mia madre, quanto ha influenzato e formato il mio modo di pensare e di percepire questa gente? La sua (?) cultura era una cultura del pregiudizio e del giudizio verso gli altri, non una cultura del leggersi dentro, dell’autopercezione, dell’autoriflessione e dell’autointerrogarsi.

Ora posso comprendere meglio quel mio senso di smarrimento iniziale. Da sempre nei confronti delle popolazioni con forte autonomia, ma in minoranza e marginalizzate, si ripete tra le varie accuse anche quella del furto di bambini.

Al corso c’è una donna sinti che viene con i suoi due figli più piccoli. È una donna intelligente, molto critica, forte; queste sue qualità potrebbero essere interpretate come: è furba, è polemica, è aggressiva. Tiene il più piccolo al collo, gli parla nella sua lingua, lo ninna, lo coccola, e appena il piccolo piagnucola, gli dà il latte. Non ha falsi pudori, né regole precise per l’orario d’allattamento. Il bambino è sano, bello, tranquillo e sorridente.

Penso all’immaginario collettivo, a quanto siamo abituati a pensare attraverso categorie e stereotipi, a quanto il nostro pensiero simbolico «crea» su situazioni e persone, perché è nel simbolico che ci rappresentiamo le cose e il mondo. E questo vale per «noi» e per chi è considerato «altro».

L’immagine opposta a quella dello zingaro sporco e ladro è quella dello zingaro libero, senza patria, né dimora, antagonista del mondo industrializzato. Sono due rappresentazioni di realtà dietro cui si nasconde uno stereotipo che danneggia la loro cultura e la nostra.

Nel gruppo delle donne sinti che vanno dai 18 ai 50 anni, ci sono tre ragazze che hanno frequentato la scuola fino alla terza media. Tutte fanno uso di psicofarmaci perché per vari motivi si sentono e sono depresse. Una di loro in particolare è magrissima e ho la netta sensazione che soffra anche di anoressia. Mi hanno confidato in alcuni momenti in cui eravamo sole, che desiderano molto uscire dalla situazione in cui si trovano, desiderano una vita «normale». Alla mia domanda – che cosa intendi per vita normale? – hanno risposto che vorrebbero poter avere una bella casa, fare shopping, poter andare al ristorante…

Stereotipi e ambiguità

Spesso assistiamo ad avvenimenti che convalidano gli stereotipi, accadono in tempi in cui la maggioranza è pressata dalle condizioni di insicurezza in senso lato e di insicurezza economica, o per il decadere di alcuni valori o per la mancanza di un possibile futuro.

Gli stereotipi, nel tempo, rinforzano quello che si è andato costruendo sulle minoranze con una specie di gioco perverso dove accusati e accusatori risultano essere parte di un complesso di cose strane, ambivalenti, intrise di paura.

Ad esempio, se sei giudicato ladro di bambini dalle persone in mezzo a cui tu sei il «diverso», può succedere che, inconsciamente o no, tu agisca, parli, faccia gesti che possono farti considerare come ladro di bambini. Così persone vittime di stereotipi, vivono e si comportano in modo tale da confermare lo stereotipo di cui sono accusate.

Negli anni di insegnamento ho avuto modo di avere in classe bambini rom. E, sia pure con difficoltà di vario genere, vedevo che i bambini tra loro si accettavano. Questo non vuol dire che ho agito attraverso la centralità del bambino di roussoiana memoria, che anzi un po’ mi fa paura, perché nella nostra società viene tradotta continuamente in termini di prevenzione-controllo; a mio parere e per ciò che ho sperimentato, il lavoro da fare è sempre sulla centralità della relazione bambino-bambino e, soprattutto, adulto-bambino, perché è questo il luogo dello scambio dispari, di una disparità mobile, non legata ai ruoli, non garantita ma da cui si crea (o non si crea) consapevolezza di sé e del mondo.

Un po’ di tempo prima di iniziare il corso ho cercato di incontrare persone che avevano o avevano avuto a che fare con gente rom o sinti. Mi piaceva conoscere la loro esperienza, che tipo di relazione si era instaurata, se ancora esisteva, quali le emozioni, quale organizzazione, se continuava… Dopo essersi raccontato, qualcuno mi ha detto che la relazione è difficile, per quanti sforzi si facciano per integrarli tu rimani sempre «il nemico». Consigli? – Difenditi, non essere perfezionista. C’è stato chi sinceramente mi ha confidato di essere sempre perplesso di fronte ad attività o progetti per/con loro: ogni volta provava la sensazione che per il 50 per cento fosse una cosa positiva, ma l’altro 50 per cento fosse negativa. Un’altra, dopo due anni di convivenza con una famiglia sinti in Comunità, con punte di varia difficoltà, alla mia domanda – cosa ti è rimasto di loro -, dopo aver riflettuto ha detto «la mia fatica e la tenerezza». Il paragone che ho sentito più spesso fare è stato quello di paragonare i rom agli indiani d’America.

Stando con loro mi rendo conto che non potrò mai essere una di loro, non solo perché io ho casa, soldi, sogni, futuro e vita altrove, ma perché sono un’insegnante.

Abdicare alla mia distanza da loro significherebbe rinunciare a ogni possibilità di intervento educativo.

E, al contrario, troppa distanza significherebbe perderle, rifiutare di «vedere», tornare a far parte dell’altro mondo, quello cieco, che ha deciso che, per viverle/i «bene», stiano nelle «riserve» e soprattutto siano invisibili.

Interazione e integrazione

La parola «integrazione» mi ha sempre lasciata perplessa e scontenta.

L’idea di integrazione presuppone una società omogenea, capace di accogliere le diversità, ma nella realtà dei fatti, con la seduzione o con la forza, la maggioranza agisce in modo tale che le altre culture confluiscano in essa; implica una cultura che integra e una che viene integrata, e tutto sommato è un’idea basata sull’assimilazione.

Altro è l’idea di interazione. «L’ethos dell’interazione è antifondamentalista ma non relativista. Perché si abbia interazione non basta la tolleranza. Occorre che ciascuna parte riconosca le altre come competitori-collaboratori nella ricerca di verità autentiche, senza rinunciare a priori ai propri ideali e valori» (G. Zagrebelsky, La sfida multiculturale alla società occidentale, la Repubblica, 2008).

Oggi manca la considerazione e l’interesse per come gli altri guardano e interpretano la cultura occidentale, eppure ci deve essere un’antropologia dei diritti fondata sulla concezione dell’umano e del mondo proposta dalle diverse culture, tutto ciò fa parte della dignità di essere «umani».

Se il fulcro delle nostre concezioni di ricchezza e sviluppo fosse l’idea, di kantiana memoria, della persona intesa sempre come fine e mai come mezzo, si aprirebbe un processo di grande innovazione. Allora la progettazione politica garantirebbe ai cittadini di vivere un’esistenza degna di essere vissuta, di conservare l’integrità e la salute, di usare i sensi e il pensiero, di esprimere sentimenti e stringere amicizie, di vivere in sintonia con la natura, di avere un controllo sull’ambiente, di giocare e divertirsi.

Sarà ancora possibile tutto questo o il mio è un «eccesso» di utopia?