Arbeit macht frei
Non so perché la mia memoria è tornata in superficie soltanto adesso, visto che sono passati quindici mesi. Sono stati quindici mesi in cui quella stessa memoria è rimasta poco sotto il pelo dell’acqua o il sottile strato di terra che mi ricopriva.
Lo dicevo ai miei alunni di una quinta del liceo scientifico. Se di Auschwitz e di tutto quello che la riguarda perdiamo la memoria, allora Auschwitz torna. Memoria come «mnéme», cioè ricordo della mente e del cuore e memoria come «mnéma», cioè segno scolpito, lapide.
Ecco, Auschwitz è una lapide, un segno scolpito nel tempo perché si faccia memoria di un evento e se ne tragga non soltanto un insegnamento, ma un atto responsabile e forte di opposizione al male assoluto e di orientamento radicale al bene. Il resto è una chiacchiera.
In questi giorni così duri e difficili, dove è quasi impossibile recuperare la speranza del bene e dove tutto pare naufragare dentro un coacervo confuso di rabbie e di odi, mi è tornato alla mente e al cuore quel ricordo nitidissimo e soprattutto si è riproposta Auschwitz nella sua essenza, come una pietra che si eleva dal nulla e che si erge davanti a me e a noi.
In Polonia solo per Auschwitz
Sono andato in Polonia solo per Auschwitz e lo dirò con tutta la franchezza. Molti ci vanno per San Giovanni Paolo II e per tutte quelle forme di devozione popolare che ho sempre osservato con religioso disincanto. Io invece sono partito per Varsavia, da solo, con l’intento lucido e determinato di arrivare ad Auschwitz per scoprire una realtà a me sconosciuta, proposta sovente in chiave storica, politica o letteraria, ma che mi interessava soltanto per il suo significato memoriale. Avevo capito che la memoria, depurata dalla nostalgia, aiuta a crescere e ad assumere il presente in tutta la sua complessità e pensavo che Auschwitz potesse rappresentare un’occasione straordinaria e vitale. Auschwitz, luogo di una morte che dilaga e che si respira, poteva e doveva rovesciare quella logica che l’aveva sempre accompagnata, spiegando, a dispetto di tutto, la bellezza e l’intensità della vita.
A Varsavia sono andato in fretta dall’aeroporto alla stazione ferroviaria e sono partito per Cracovia. A Cracovia, mentre calava la sera, scendeva una pioggerella fredda e fastidiosa, che mi accompagnava anche dal finestrino del tram e dalla finestra dell’albergo. Poi, la mattina successiva, sono partito per Auschwitz, scegliendo deliberatamente un vecchio autobus di linea: io, due donne polacche in età avanzata, due ragazzi giapponesi e un corpulento autista. Per pudore ho chiesto un biglietto per Oswiecim, che è il suo nome polacco, ma la ragazza della stazione mi ha risposto subito con il nome tedesco che tutti conosciamo: Auschwitz. I polacchi non amano appropriarsi di quel luogo, lo sentono estraneo, lo vedono come una ferita in casa propria, sentono di non meritare quella maledizione. Recentemente il loro bizzarro Parlamento attuale ha vietato per legge di dire e di scrivere che Auschwitz sia un campo polacco. È tedesco. Che si sappia.
All’ingresso del campo ho atteso silenziosamente e pazientemente in fila, ho pagato il servizio di guida e ho aspettato, mentre il freddo si alzava. Era solo il 24 ottobre 2015, ma il gelo dell’est è pur sempre una cosa seria.
Ho alzato il bavero, messo i guanti e il cappello e ho cominciato a tacere dentro me stesso. È molto importante che ad Auschwitz si taccia e che ci si denudi interiormente, come un monaco benedettino che la mattina si alza dal letto, esce dalla cella e si consegna solo a Dio. Attraversare Auschwitz solo con la pienezza di Dio non è possibile, se non altro perché la perversione del male assoluto ad Auschwitz ha mosso un attacco violento e terribile a Dio stesso. Serve la libertà dell’uomo coraggiosamente alleato di Dio.
Ho detto ancora agli studenti che solo ad Auschwitz ho percepito l’esistenza e l’azione del demonio, ma non tanto in una chiave ricolma di superstizioni o di paure, quanto in una chiave teologica di interpretazione della vita, del mondo e dello stesso ruolo di Dio. Ad Auschwitz la pienezza di Dio ha subìto un attentato orrendo e ha fortunatamente resistito. Però sempre ad Auschwitz questa pienezza ha dimostrato agli uomini che occorre quotidianamente un’azione responsabile e forte e che la bellezza della creazione non è data una volta per tutte, ma va conquistata, ottenuta, meritata e vissuta giorno dopo giorno. Altrimenti il male assoluto torna.
«Dov’è Dio adesso?»
Dopodiché che cosa dovrei dire? Dovrei forse descrivere quello che ho visto? Sì, forse sarebbe utile, ma credo che anche questo non sarebbe sufficiente. Mi è rimasto tutto, anche le pozzanghere.
Ho passato il cancello d’ingresso con la scritta in tedesco «Arbeit macht frei», con l’impressione di sentire contare l’ufficiale delle SS all’ingresso, mentre i prigionieri tornavano dal lavoro. Li definivanoàfreddamente «Stück», pezzo, e ogni giorno tanti pezzi dovevano uscire e tanti pezzi dovevano rientrare, vivi o morti, e, se morti, portati a spalla dai loro compagni.
L’Appellplatz, la piazza dell’appello quotidiano, con quella sinistra forca là davanti, rappresentava un Golgota involontario o magari, chissà, addirittura volontario. Elie Wiesel citava l’episodio dell’impiccagione di un ragazzo che aveva tentato la fuga e dell’implorazione addolorata di un prigioniero che assisteva: «Dov’è Dio adesso?», mentre un altro prigioniero, sempre a voce bassa per non farsi sentire, diceva: «È lì. È lui. Non lo vedi?».
In quest’assurda e inattesa riproposizione dell’evento della croce, ora trasformata nella forca di un innocente, forse c’era la prefigurazione del senso stesso della croce o forse c’era semplicemente l’orrore per la morte insensata di un innocente.
Il Kinderblock, dove i bambini venivano trattenuti, o l’infermeria, dove si compivano gli atroci esperimenti su di essi, sono, a seconda della sensibilità di chi arriva, una testimonianza straziante o un’occasione di ribellione eterna contro il male che viene avanti. Compiendo atrocità sui bimbi, quell’umanità si è arresa alla morte eretta a sistema. Che cosa c’è di peggio?
Tutto scorre
E poi quella meticolosa attenzione a catalogare ogni dettaglio. Conservavano gli occhiali, le dentiere e gli arti artificiali. I capelli venivano tagliati e poi ammassati in depositi per farne altro uso: biondi, neri, grigi, da donna, da uomo e da bambino. Non so come e non so perché, ma io ho pensato a Gesù Cristo quando parlava della bellissima sollecitudine di Dio verso l’uomo: «Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati» (Mt 10,30).
In quell’azione di conservazione dei capelli c’era il tentativo simbolico dell’uomo arreso al male, che tenta di contare i capelli. Abbiamo la triste soddisfazione di sapere che Dio conta i capelli e che i nazisti non sanno farlo.
I forni e le camere a gas hanno un’apparenza ordinaria. Che differenza c’è tra una doccia pubblica e una camera a gas? Quella che intercorre tra l’acqua e il Zyklon B, il gas letale usato per uccidere, le cui scatole vuote venivano puntigliosamente conservate. Che differenza c’è tra una panetteria e un forno crematorio? Quella che intercorre tra un pezzo di pane e un essere umano.
Ecco, nell’apparente rassomiglianza tra i luoghi della morte più nera e le cose più semplici e ordinarie della vita umana, c’è il tentativo dei carnefici di trasformare la vita umana in un oggetto che brucia o nell’acqua che scorre. Si tratta della comunicazione del disprezzo estremo per l’essere umano e per la vita.
In quel luogo ho avvertito la peggiore delle provocazioni e ho colto la più tremenda delle simbologie, quella che equipara gli uomini alle cose e che paragona la vita a qualcosa che brucia senza senso né misura.
Se non recuperiamo la memoria
A Birkenau, dove ci hanno trasportati, faceva un freddo micidiale e spirava un vento gelido, che entrava nelle ossa. L’aria tetra e livida passava ovunque e non serviva dire alcunché. Non vedevo l’ora di andarmene e non tanto per la sofferenza del freddo, ma per il sapore della morte. A Birkenau hanno gasato e cremato la grande maggioranza degli esseri umani passati da lì. All’inizio avevano tentato una sommaria immatricolazione. Poi, alla fine, hanno rovesciato tutti indistintamente dentro l’abisso della morte. I prigionieri passavano direttamente dai treni alle camere a gasàper concludere la loro corsa nei forni.
Mi sembrava di avere un milione e centomila occhi addosso. Li sentivo dappertutto, li vedevo ovunque: nei sassi, sulla terra che calpestavo, tra i binari e nei campi attorno, nell’aria e nell’acqua, perfino nel più alto dei cieli. Erano arrivati come me ed erano irrimediabilmente scomparsi in qualche chilometro quadrato. Tra me e l’orizzonte c’erano un milione e centomila uomini e donne che parlavano, cantavano, piangevano, respiravano. Alla fine tutto sembrava comunicare la loro presenza, perfino lo «Scheissekommando», il «comando della merda», come venivano ironicamente chiamate le latrine, dove si poteva andare tutti insieme solo due volte al giorno e dove nemmeno le SS entravano. Non a caso tutti volevano pulire le latrine: per riscaldarsi, per non vedere le SS e soprattutto per vivere qualche giorno di più.
Mi ricorderò il congedo, davanti allo «Scheissekommando», della nostra guida, una signora polacca gentile e assai triste: «Sono pessimista. Gli uomini hanno dimostrato di non avere imparato la lezione e questo posto, se non recuperiamo la memoria, prima o poi torna».
Alla fine ci è stata data la possibilità di salire sulla torre del comando di Birkenau. Da lassù si vede tutto e molti, per stanchezza, hanno rinunciato. Io sono andato per primo, facendo i gradini a due a due. Poi, in cima, mi sono impadronito della vista di Birkenau, con i suoi binari abbandonati, le sue poche baracche ricostruite, i suoi forni e le sue camere a gas fatti saltare e poi lasciatiàcome monito, e soprattutto quel milione e centomila anime che volava ovunque. Ho pensato al comandante delle SS, poi inforcato un anno dopo ad Auschwitz, e ho immaginato che, guardando giù, avesse provato sempre un senso di dominio e di proprietà sulla vita e sulla morte. Per un momento mi sono illuso di essermi installato al suo posto perché avevo vinto io, anzi, avevamo vinto noi, ma mi sono sbagliato, perché noi siamo diversi da loro.
Mi piace pensare di avere dato una carezza a tutti quelli la cui anima aleggiava poco sotto. Anche se non li ho mai conosciuti, mi mancano tutti.
Sono andato via senza guardare indietro. Porto con me la memoria e soprattutto la porto come un segno marcante, una lapide che riaffiora dopo tanto tempo con infinito pudore, un segno che non muore, un sasso che non si strappa dalla terra.
Si sappia che al male io resisto, perché credo in Dio e perché credo alla bellezza e all’intensità della vita di ogni essere umano, che resiste con me, perché resistere è «re-existere», esistere di nuovo, esistere ancora, esistere a testa alta. Ho la lapide di Auschwitz dentro, ho il suo segno, il suo ricordo. Ecco perché resisto.