Aprire le porte di speranza
Il tema dell’accoglienza è la grande scommessa la cui posta in gioco è la tenuta della civiltà europea. Non esisterà mai l’Europa se questa sfida non viene giocata e vinta. C’è una bella affermazione di Giorgio Agamben che definisce, in controtendenza con lo «spirito del tempo», il senso della contemporaneità: «È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo».
Inattuale
Ebbene, l’insegnamento che viene da Francesco possiede questo carattere inattuale. Cosa c’è, oggi, di più inattuale che teorizzare e praticare, contro lo «spirito del tempo», la necessità dell’accoglienza? Inattuale era anche Cristo quando cacciò i mercanti dal tempio e quando, da bambino, lasciò i suoi genitori per cercare la propria strada. Inattuale era la foto di quel bimbo, Aylan, senza vita a faccia in giù nel bagnasciuga, proprio là dove i bambini imparano a giocare con l’acqua quando ne temono ancora l’arrivo. Inattuali sono tutti quei volontari che nelle nostre grandi città caritatevolmente si prendono cura degli immigrati e dei poveri, che ascoltano le loro voci, che sentono il loro dolore. Inattuale è chi cammina lentamente con le mani in tasca; chi non scavalca, preso dai propri pensieri, quel mucchio di cenci sotto il quale dorme un barbone, ma si ferma a guardarlo e, all’occorrenza, a soccorrerlo. Inattuali sono quelle città che aprono le loro porte – porte di speranza – al viandante, al pellegrino, al migrante.
Coesistenza/conflitto
«Gerusalemme è un mondo di coesistenza, non di simbiosi. Voi siete là, per esempio, alla porta di Sichem e potete vedere, gli uni accanto agli altri, un rabbino che va a pregare al Muro, una ragazzina in minigonna che viene da un kibbutz, un musulmano sul suo asino e poi un monaco greco. Non c’è, direi, alcuna interpenetrazione. Ciascuno vive nel suo mondo; non c’è niente di comune tra il mondo del rabbino e quello del monaco greco: sono mondi differenti che coesistono, l’uno a fianco dell’altro. È una tensione continua. Tensione tra praticanti e non praticanti; tensione tra comunità differenti» (da un racconto di Davide Shahar, in Verso Gerusalemme di C. M. Martini, Roma, Feltrinelli, 2002).
La coesistenza non è pacifica, né naturale o automatica: è conflittuale, è una tensione costante, un ossimoro che mette in tensione realtà contrapposte ma in equilibrio tra loro. La coesistenza costa fatica, non è mai data gratis e questo equilibrio tra assoluti è continuamente minacciato, impedisce che uno degli elementi prenda il sopravvento sugli altri.
L’Europa non dovrebbe temere questo conflitto perché la sua grande civiltà nasce proprio dal conflitto. Per la prima volta – afferma Ezio Mauro – i garantiti capiscono di poter fare a meno degli esclusi, degli ultimi della Terra, e così vengono meno i vincoli di interdipendenza che per decenni hanno tenuto insieme i vincenti e i perdenti dentro un orizzonte comune cui abbiamo dato il nome di società. Evitiamo che questo accada, sarebbe l’ultima guerra mondiale, quella finale.
Enzo Scandurra
già direttore del dipartimento di architettura e urbanistica
della facoltà di ingegneria,
già ordinario di sviluppo sostenibile per l’ambiente e il territorio,
Università di Roma La Sapienza