Alle radici del rancore sociale
Segnati da una lunga crisi economica, gli ultimi dieci anni hanno marcato profondamente la società europea e italiana. Le fratture sociali si sono ampliate e le incertezze verso il futuro hanno dato vento in poppa ai partiti populisti. Le cause e i percorsi di tale evoluzione vanno ricercati in più direzioni.
I segnali di un declino economico e sociale
I processi di globalizzazione economica hanno visto salire alla ribalta paesi a lungo rimasti ingabbiati in una povertà diffusa, quali India, Brasile e Cina. La maggior parte degli scambi commerciali non fluiscono più sull’asse nord-sud, ma su quello sud-sud del pianeta. È davanti agli occhi di tutti il potenziale industriale e finanziario di questi paesi-continente. La delocalizzazione continua dall’Europa occidentale verso l’est e l’estremo oriente, ha segnato il declino di interi distretti economici e industriali. Le produzioni ad alto fabbisogno di manodopera hanno traslocato in ambiti in cui il costo del lavoro è infinitamente più basso. La responsabilità sociale delle imprese, di cui si parlava tanto nei decenni scorsi, è naufragata a beneficio del massimo profitto per gli investitori di capitali. Il territorio e la sua «gente» sono stati declassati a risorse in esaurimento.
L’Europa vede innalzarsi l’età media della sua popolazione e si trova a soffrire di un deficit di capitale umano necessario alla stabilità e alla sostenibilità del sistema socioeconomico sviluppato nel secondo dopoguerra e cresciuto negli ultimi decenni del secolo scorso. Secondo i dati Eurostat, nel 2018 gli over 65enni in Europa rappresentavano circa il 30% della popolazione e in questo panorama di invecchiamento l’Italia detiene il primato con il 35%. L’invecchiamento della popolazione porta con sé parecchi indici di fragilità sociale, dovuti in parte alle esigue disponibilità economiche previdenziali, ma anche alla crescente difficoltà fisica necessaria alla propria autonomia, il venir meno della quale prospetta una vecchiaia sempre più di solitudine e di dipendenza dagli altri. Non è un caso che chi esprime più paura e angoscia verso un futuro incerto siano gli anziani. Il declino demografico dell’Europa e dell’Italia lascia dei vuoti generazionali che alla lunga non permetteranno la sostenibilità economica della convivenza sociale. Questo declino lo si può dedurre dagli spot commerciali dove i prodotti dedicati alla terza età hanno surclassato quasi totalmente la proposta di prodotti dedicati all’infanzia. Tale condizione appesantisce anche le economie famigliari, che diventano sempre più onerose per garantire adeguata assistenza a genitori anziani o a parenti invalidi. La percezione di fragilità e la riduzione sostanziale di autonomia costituiscono un groviglio di incertezze e di paure che trovano uno sfogo nelle più svariate forme di «rancore sociale».
Crescono individualismo, anonimato ed estraneità territoriale
Le relazioni solidali, costituitesi nei decenni in cui le masse contadine e operaie condividevano obiettivi di crescita economica e di autonomia nella progettazione della propria vita e del proprio futuro personale e famigliare, si sono sfilacciate. La grande fabbrica di un tempo, ad alta presenza di manodopera, forgiava la percezione di appartenere a un corpo sociale coeso, unito nella tensione del raggiungimento di obiettivi collettivi.
Il prodotto finale di questa ricerca di autonomia personale e famigliare ha costituito la trappola d’oro della solitudine e dell’anonimato contemporaneo. Le collettività di individualisti che costituiscono le nostre convivenze hanno costruito le proprie relazioni sociali sulla logica del proprio tornaconto, senza attenzione per chi, nella corsa al benessere, è rimasto indietro. Anzi, il vanto di essersi «fatti da soli» legittima la propria sovrana autonomia. La solitudine come obiettivo di realizzazione di sé.
La competizione sfrenata non lascia spazio ai perdenti, da cui occorre difendersi, ricorrendo a sistemi di sicurezza sempre più sofisticati fino a formare delle gated communities, asserragliate nella propria casa o nel proprio residence. Il venir meno delle relazioni sociali di solidarietà ha visto crescere nelle nostre collettività locali i cosiddetti communities users, cittadini che utilizzano il territorio come semplice domicilio, avulsi da quanto vi succede, estranei agli eventi vissuti dalla comunità locale.
Povertà in crescita e mercato del lavoro al ribasso
La crisi economica ha sollevato anche altri fantasmi che abitano il quotidiano di milioni di cittadini, tra cui quello di un ritorno alla povertà. Secondo i dati Istat del 2016, in Italia il 30% dei cittadini era a rischio povertà e oltre 7 milioni di italiani (l’11,5% della popolazione) vivevano già nella condizione di povertà assoluta, simile a quella vissuta in Stati come Romania o Bulgaria. La trasformazione radicale del mercato del lavoro, la drastica riduzione della classe media scalzata da una posizione reddituale di benessere, hanno portato a un eccesso di relazioni concorrenziali in tutti gli ambiti lavorativi. I datori di lavoro, quindi, possono giocare al ribasso sulle retribuzioni, confidando nella fragilità e nell’annichilimento psicologico di chi vede scemare una sicurezza economica che pareva duratura. La mancanza di un reddito in grado di permettere una vita dignitosa ha oscurato il futuro di famiglie e di giovani costretti a vivere nella precarietà, e non sarà certamente il reddito di cittadinanza a sollevare le sorti di buona parte di chi si arrabatta giorno e notte per stare a galla. Senza una previsione di reddito da lavoro dignitoso non si risollevano le sorti dei vinti dal mercato globale.
Un segnale preoccupante è poi l’alta percentuale dei cosiddetti Neet, giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non sono in formazione professionale. La percentuale italiana,secondo l’Istat, raggiungeva nel 2017 il 24,1% dei giovani tra i 15 e i 29 anni (circa 2 milioni), e il tasso è in crescita.
Il falso allarme immigrati
Di fronte a queste situazioni di incertezza e di effettive, reali, fragilità sociali, l’apparato mediatico e politico ha rifuggito le proprie responsabilità, addebitandone le cause a una popolazione minoritaria e ancora povera di tutele, quella immigrata. Una popolazione che non rappresenta neppure il 10% della popolazione totale, inclusi gli ultimi arrivati, i richiedenti protezione internazionale. L’immaginario collettivo europeo e italiano subisce il fascino di chi propina allarmi di invasione e di sostituzione demografica, rinfocolando ideologie nazionaliste, le uniche che sembrano al momento in grado di far sentire alcuni «poveri» superiori e più meritevoli di attenzioni sociali di altri. Le paure indotte, «banali», stanno segnando le relazioni sociali, fomentando odio e disprezzo nei confronti non solo di chi è di pelle o religione diversa, ma anche di chi la pensa diversamente. Basti vedere come riceve piena cittadinanza in tutti i salotti il «reato» di carità, oltre alla ridicolizzazione di chi cerca di contestualizzare in modo competente i fenomeni migratori e dare il vero nome alle ragioni della paura e dell’angoscia che attanagliano molti individui.
Di fronte alla crisi delle relazioni di cittadinanza occorre ricominciare a tessere relazioni corte, calde, con coloro con cui condividiamo spazio e tempo, perché è questo che il futuro delle prossime generazioni ci chiede. Un assaggio di tale richiesta è stata la grande mobilitazione internazionale per la salvaguardia del pianeta Terra. Non lasciamo cadere la proposta, perché da questo dipenderà, almeno in parte, la soluzione alle migrazioni forzate per guerra, catastrofi naturali e assenza di sovranità alimentare.
Franco Valenti
collaboratore CESTIM (centro studi immigrazione), Verona