Alla ricerca della sicurezza urbana: il ritorno dello sceriffo tra (poche) luci e (molte) ombre
C’era una volta…
Chi si ricorda delle ordinanze pazze? Forse ce ne ricordiamo tutti, ma è bene rinfrescare la memoria.
Sulla scorta di alcune esperienze pilota, presentatesi già nel 2007, il legislatore, nell’estate del 2008 – in uno dei «pacchetti sicurezza» che più hanno caratterizzato quella stagione – aveva conferito ai Sindaci, nella loro qualità di ufficiali del Governo, il potere di adottare «provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana» (art. 54, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, così come modificato dall’art. 6 del decreto legge n. 92/2008, conv. in legge n. 125/2008).
Era seguito, il 5 agosto dello stesso anno, un decreto del Ministero dell’Interno, volto a definire che cosa potesse intendersi, concretamente, per incolumità pubblica e sicurezza urbana, chiarendosi che, con il nuovo strumento, i Sindaci avrebbero potuto occuparsi della «vivibilità dei centri urbani», della «convivenza civile», della «coesione sociale», al fine di fronteggiare «situazioni urbane di degrado e di isolamento», di «intralcio alla pubblica viabilità», di alterazione del «decoro», ma anche allo scopo di combattere «la prostituzione su strada» o «l’accattonaggio molesto».
Aveva preso vita, da ciò, un singolare e diffuso attivismo, nel quale molti Sindaci, di grandi città come di piccoli paesi, si erano resi protagonisti della creazione di innumerevoli divieti, talvolta dal più strano e curioso contenuto.
Gli interpreti avevano prontamente sottolineato alcune criticità. In primo luogo, per essere legittime, e per non confliggere dunque con alcuni principi fondamentali di matrice costituzionale, le ordinanze sindacali dovevano limitarsi a riguardare situazioni provvisorie, al solo scopo di facilitare la prevenzione e la repressione di ipotesi di reato, e perciò dovevano essere motivate in modo adeguato. In secondo luogo, però, si evidenziava anche che, così concepite, queste ordinanze finivano per consegnare al Sindaco un potere assai ampio, capace di limitare numerose libertà costituzionali senza che vi fosse una previa e chiara definizione legislativa dello specifico disvalore di alcune condotte; e, oltre a ciò, si segnalava anche che il ricorso al potere di ordinanza, lungi dal contribuire al superamento dei problemi di sicurezza urbana, si limitava a espellerli, dando voce privilegiata e sproporzionata alle istanze e ai bisogni di volta in volta emergenti in seno alle singole comunità (o meglio maggioranze) politiche del territorio.
Con un’importante sentenza (n. 115 del 2011) la Corte costituzionale aveva cercato di ridimensionare il ricorso alle ordinanze, cancellando dal succitato art. 54 del Testo Unico degli enti locali la parola «anche» e avallando con ciò la tesi che simili provvedimenti potessero adottarsi solo in via eccezionale e, in ogni caso, soltanto in funzione dell’attività di repressione dei reati, e quindi di divieti già previsti dalla legge e penalmente sanzionati.
Vecchi bisogni, vecchia fame, ricette parzialmente nuove e «pericolose»
Sono passati pochi anni e i Sindaci, in verità, non hanno mai smesso di adottare ordinanze più o meno discutibili, finendo, anzi, per ingaggiare ripetutamente dei veri e propri conflitti con i giudici amministrativi, chiamati caso per caso a pronunciarsi su di esse. Allo stesso tempo, peraltro, il tema della sicurezza urbana è rimasto attualissimo, così come è rimasta assai diffusa, anche nell’opinione pubblica, l’impressione di una stretta e decisiva connessione tra insicurezza e degrado cittadino.
La logica, forse, a questo punto, avrebbe voluto che il ceto politico e la classe dirigente acquisissero coscienza che non si possono «governare» simili questioni con uno strumento che, oltre che complesso e pericoloso, si è comunque rivelato difettoso e non risolutivo. Ma così non è stato: vuoi perché il «centro» del Paese non è in grado, da tempo, di «partorire» dibattiti e riforme realmente meditati e condivisi; vuoi perché la «fame» di sicurezza è stata agitata innanzitutto dalla «periferia», sicché allo Stato non poteva che restare l’opzione di ripartire dalla ricetta già a suo tempo abbozzata, cercando di correggerne, almeno in parte, il gusto.
È così che, con il decreto legge n. 14/2017, il Governo ha tentato di risolvere alcuni problemi di utilizzo materiale dello strumento dell’ordinanza sindacale, senza dimostrare, certo, di volerlo superare e, viceversa, cercando di facilitare il lavoro del sindaco.
Le ordinanze – che ora possono essere adottate «in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche» – sono disciplinate espressamente dall’art. 50, comma 5, del Testo Unico degli enti locali, ossia dalla stessa disposizione in cui si prevedono le ordinanze che il Sindaco può adottare «in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale».
In questo modo la loro natura provvisoria, contingibile e urgente, è testualmente ribadita. Ed è parimenti positivo che si dica, già nel testo di legge, quale può essere il raggio d’azione di questi provvedimenti.
Il fatto è che, diversamente dal passato, il Sindaco è un po’ più libero di calibrare i suoi originali divieti, poiché questa volta non è chiamato ad agire come ufficiale del Governo, bensì come «rappresentante della comunità locale». Il Prefetto, dunque, non può intervenire per annullarne le determinazioni.
C’è poi da chiedersi se la definizione dei settori su cui il potere sindacale può incidere non sia troppo generica, dal momento che, se è vero che la vaghezza può essere compensata con un’adeguata e circostanziata motivazione, è altrettanto vero che il tema di ciò che si può limitare o comprimere in quei settori è potenzialmente assai ampio, e non è detto in alcun modo che esso possa rientrare nella disponibilità sostanziale del solo potere amministrativo (non è di aiuto anche l’altrettanto indeterminato apparato definitorio dell’art. 4 del decreto legge).
C’è anche da domandarsi, inoltre, che significato abbiano la non cancellazione del vecchio potere di ordinanza ex art. 54, comma 4 (che viene invece specificato e ancorato a una disciplina regolamentare adottabile dai consigli comunali), nonché la previsione, nel nuovo assetto normativo, di un potere ulteriore di ordinanza, al comma 7 dell’art. 50, molto simile, tuttavia, a quello da ultimoàdescritto. Come si coordinano tutti questi strumenti?
Vi è, infine, un altro profilo, che innova di molto rispetto all’esperienza precedente e che, nel farlo, pare aggravare il quadro generale. Al Sindaco, infatti, è anche riconosciuto il potere di adottare – analogamente a quanto può fare il Questore nei confronti dei tifosi violenti negli stadi… – un «daspo» urbano (v. l’art. 9 del decreto legge), ossia di decidere l’allontanamento dal territorio comunale di tutti coloro che abbiano violato le peculiari regole che la legge o il regolamento comunale può porre a tutela di determinati luoghi. I vincoli che in tal modo si possono configurare alla libertà di circolazione sono davvero notevoli. E v’è da pensare che su questa peculiare innovazione i giudici avranno molto da dire nei mesi a venire.
La «lotta» per la sicurezza
Tra gli studiosi che hanno preso immediata posizione su queste novità è assai forte il senso di fiducia nei confronti delle tradizionali capacità razionalizzatrici dei giudici. Se i Sindaci «esonderanno» oltre il tollerabile, sarà il potere giudiziario a riaffermare alcuni irrinunciabili principi.
Non c’è dubbio che questa fiducia – la storia recente lo insegna, e lo insegna anche, e proprio, la storia specifica delle ordinanze post 2008 – è ben riposta. Ma può dirsi sufficiente? Non è forse vero che, ancora una volta, anche in questo terreno, così scivoloso, rischiamo di assistere all’ennesima puntata dello scontro tra autorità politiche e autorità giudiziarie? Se è vero che la sicurezza è un fattore primario di libertà e di sviluppo – occorre riconoscerlo: essa non appartiene solo a una determinata cultura politica – nonàè forse vero che non la possiamo abbandonare a un conflitto tanto delicato?
Sul punto il decreto legge di quest’anno, pur riconfermando un ruolo centrale dei Sindaci, conferma anche che occorre fare altro: riattiva, infatti, il valore dell’azione coordinata tra livelli di governo e tra amministrazioni diverse (statali, regionali e locali), accedendo espressamente a una nozione di «sicurezza integrata», in vista della quale gli enti interessati possono stipulare veri e propri «patti» di collaborazione e di sostegno reciproco. È chiaro, del resto, che non si può affrontare l’insicurezza ingigantendo la funzione di singoli amministratori; ed è chiaro, soprattutto, che non la si può affrontare solo con singoli interventi di emergenza.
Ma ci vorrebbe altro, di maggiormente sostanzioso. Perché se è vero che l’insicurezza si accoppia al degrado, allora è vero che i Comuni non possono essere abbandonati neanche da questo punto di vista, e che c’è bisogno, dunque, da parte del «centro», di un forte ed esplicito segnale di fiducia nei confronti delle capacità di valorizzazione e di tutela che la società civile direttamente esprime, allorché dimostra, proprio nella sede locale, di volersi impegnare direttamente, e positivamente, nella trasformazione attiva degli spazi e dei luoghi che la città offre. C’è bisogno, infine, di una legge nazionale sulla sussidiarietà orizzontale e sulla cittadinanza attiva: per superare tutte le difficoltà pratiche che le amministrazioni locali spesso devono affrontare sul punto e per occupare, così, i luoghi del degrado con azioni socialmente utili e istituzionalmente riconosciute.