Abbasso i tassi!
A metà dicembre, come risposta alla crisi oramai non solo finanziaria, la banca centrale statunitense (Fed) ha deciso di ridurre a zero i tassi di interesse. Questa manovra di politica monetaria può risultare oscura a molti: cercheremo di capire perché è stata adottata e quali conseguenze può avere. La Fed, come ogni banca centrale, ha il compito di perseguire obiettivi riguardanti l’inflazione e l’occupazione, usando come strumento i tassi di interesse. Il meccanismo è semplice: se i tassi di interesse scendono, è più economico per le imprese prendere a prestito denaro. Come conseguenza si investirà di più e ci sarà maggiore crescita che comporta maggiore occupazione; contestualmente, date le prospettive di maggiore crescita, si avranno salari maggiori. Questi, essendo una componente importante dei costi di un prodotto, faranno aumentare i prezzi e quindi l’inflazione, per abbassare la quale occorrerà alzare i tassi e, tramite un meccanismo esattamente opposto a quello appena descritto, frenare la crescita: c’è quindi una relazione inversa tra obiettivi di inflazione e di occupazione. Trovare un equilibrio è esattamente il ruolo della banca centrale. Per abbassare i tassi la banca centrale normalmente compra enormi quantità di titoli di stato, facendone dunque aumentare il prezzo e, come conseguenza, diminuire il rendimento, e dunque il tasso di interesse. All’opposto agirà se vuole alzare i tassi.
Con la manovra di dicembre, la Fed ha deciso di abbassare drasticamente i tassi e dunque ha cercato di dare uno stimolo all’economia. Poiché le reazioni psicologiche e le aspettative sono importanti tanto quanto la parte materiale, un livello dei tassi prossimo allo zero non è stato scelto casualmente: si è voluto dunque dare il segnale che tutto il possibile sarebbe stato fatto per salvare la situazione e che gli operatori avrebbero dovuto avere fiducia nel fatto che la crisi sarebbe passata in fretta. C’è però un problema: i tassi nominali determinati dalle banche centrali non possono andare sotto lo zero. La Fed ha fatto una grossa scommessa: o questa misura funziona, o non sa (quasi) più che fare. Se non dovesse funzionare, infatti, dato l’attuale abbassamento del livello generale dei prezzi, si avrebbe zero crescita e deflazione: un mix ottimo per avere alta disoccupazione e stagnazione dell’economia. In soccorso di questa situazione può venire la politica fiscale e quindi un insieme di incentivi dati dal governo a imprese e famiglie per sostenere la domanda e rilanciare l’economia. Dopo la prima mossa di salvare le banche ed evitare il fallimento di altre (politica magari impopolare ma essenziale, perché senza fiducia tra banche niente più funziona nell’economia), negli Stati Uniti le speranze sono state riposte in Obama, forse sovrastimando le reali possibilità del presidente. In generale molti paesi, tra cui la Cina, stanno varando manovre colossali, dell’ordine del 7% del Pil, per cercare di ridurre parzialmente le disuguaglianze crescenti e per sostenere l’occupazione e la crescita. In Francia Sarkozy, resosi conto della crisi, ha subito raddoppiato gli investimenti nella ricerca, capendo che senza non si potrà rilanciare nulla. In Italia, viceversa, scuola e ricerca sono stati alcuni dei settori su cui tagliare risorse.
Al di là dei provvedimenti dei singoli stati, questa crisi ha segnato il ritorno della politica come fattore chiave delle decisioni economiche. Differentemente da chi ritiene che questa sia una sconfitta del libero mercato, più probabilmente si assisterà alla ricerca di un nuovo equilibrio in cui la politica stabilirà nuove forme di supervisione e controllo lasciando poi il mercato nuovamente libero di agire. Dopo la crisi del ’29, infatti, gli stati si accordarono per creare strutture che prevenissero catastrofi simili; oggi siamo più attrezzati rispetto ad allora, ma le crisi sono inevitabili in un sistema capitalista: la politica provvederà allora ad aggiungere nuovi strumenti per ridurne le conseguenze.