Una bella favola
Forza, Alex!
Dopo il pauroso incidente di un mese fa, il pluricampione bolognese Alex Zanardi sta affrontando la sua ultima battaglia: la dura lotta per la sopravvivenza.
La sua promettente carriera di pilota automobilistico era stata azzerata dalla tragedia.
Ma un uomo senza gambe ââì« questo ci ha insegnato Alex ââì« può rimanere uno sportivo, anzi un campione. La sua voglia di ricominciare, il suo impegno, la sua passione senza fine (e senza secondi fini) hanno dato dignità, valore e visibilità a tutti gli sport paraolimpici, accendendo finalmente su di loro l’attenzione dei media. Ma la sua storia, il suo messaggio, assumono un valore più grande, che ha travalicato il campo sportivo ed è arrivato a investire il senso comune, il nostro modo di pensare e di relazionarci. Con Alex, grazie ad Alex, abbiamo capito un po’ di più, un po’ meglio, che il concetto, l’ideologia della ‘normalità’ è un trabocchetto, o una pura menzogna.
Così, proprio uno sportivo eccezionale, un pluricampione, ci ha insegnato che le classifiche possono servire a stabilire l’ordine di arrivo alla fine di una corsa, ad assegnare anche una bella medaglia, ma non devono essere usate per separare, giudicare, ghettizzare gli uomini e le donne. Almeno se vogliamo ââì« come ha voluto e vuole Alex Zanardi ââì« che la frase che abbiamo letto mille volte: «Gli uomini nascono uguali», non rimanga solo una bella favola.
Ars et Labor
Sono un pessimo sportivo. Calcio, tennis, sci, anche il motociclismo (ma solo finché resiste quel ‘ragazzino’ di Valentino Rossi) li guardo alla televisione. Non sempre, quando ci capito o quando arriva il grande appuntamento. Allo stadio? Una sola volta in tutta la mia vita. Avevo 8 anni e a mio padre venne l’ispirazione ââì« strana idea per uno come lui che era tutt’altro che un tifoso sfegatato ââì« di «farci fare un’esperienza diversa», di portare me e mio fratello a vedere la nostra piccola Spal che affrontava la grande Juve. Faceva un freddo becco e pioveva a dirotto. Non ho visto e non ricordo nulla. Solo il risultato: 4 a 0 per la Juventus.
La Spal, che per esteso fa ‘Società Polisportiva Ars et Labor’ (quella gloriosa parola, labor, meritò alla Spal un’unica citazione in un comizio di Palmiro Togliatti) è la squadra di calcio di Ferrara. Qualche modesta gloria passata (un quinto posto nel campionato maggiore), tanta serie B e tantissima serie C. Rare, rarissime le soddisfazioni, trasformate naturalmente in mito popolare. Eppure la Spal era e continua a essere una grande, grandissima (inspiegabile?) passione che percorre tutta la città, che bypassa ceti e classi sociali, mescola condizioni economiche e titoli di studio, scavalca le appartenenze politiche. A guardare la Spal, allo stadio, al bar, a casa di amici, e a commentare animatamente la partita il giorno dopo. Di fronte alla Spal, Ferrara appare un unico popolo. Qualcosa di molto simile credo succeda in tutte le 100 città d’Italia.
L’ultima passione
Non sono un uno sportivo, non sono un tifoso, ma sono affascinato dal mistero della ‘comunione sportiva’. Lo sport (non voglio fare la storia dalle Olimpiadi della Grecia classica ai giorni nostri) dimostra di avere in sé un’enorme potenza unificatrice. L’esempio più eclatante sono gli italiani che si stringono periodicamente attorno al tricolore in occasione dei Mondiali di calcio. La forza primigenia dello sport si traduce anche in mito (e nello sport si possono incontrare gli ultimi ‘eroi’ contemporanei), in racconto epico (Gianni Brera), in grande letteratura (Osvaldo Soriano).
C’era una volta, ma occorre andare indietro di alcuni decenni, in cui ‘la passione’, il sentirsi insieme, fianco a fianco, nel medesimo campo, la condivisione di un sogno collettivo, non era appannaggio solo dello sport. Per buona parte del ‘900 la politica è stata il maggior catalizzatore di sogni, speranze e progetti. La politica, per chi la praticava in prima persona ma anche per chi assisteva come interessato spettatore ed elettore, ha rappresentato un enorme e inesauribile giacimento di passione collettiva.
Cattolici, liberali, comunisti, socialisti. Moderati, riformisti, massimalisti. Realisti e rivoluzionari. La scena era affollata (come e più di adesso), ma nella politica correva trasversalmente una passione collettiva, un sentimento comune che ‘il destino individuale’ era strettamente legato a un ‘destino collettivo’.
I primi nomi che mi vengono in mente appartengono a famiglie politiche diverse e distanti: Giorgio La Pira (democristiano anomalo), Sandro Pertini (socialista), Lidia Menapace (prima democristiana, poi comunista), Enrico Berlinguer (comunista), Carlo Azeglio Ciampi (azionista).
Oggi non assistiamo semplicemente alla crisi dei partiti o alla crescente astensione elettorale, ma alla perdita di identità della politica. La politica, perdendo qualsiasi riferimento ideale e valoriale, smarrendo il necessario legame con l’aspirazione alla costruzione di un mondo diverso e migliore, sembra essere oggi un territorio disabitato. O abitato da tanti piccoli nani che si parlano tra loro e non riescono a comunicare nulla, tantomeno la passione, ai cittadini elettori.
Non mi pare che l’attuale classe politica, a destra, al centro, a sinistra, sia troppo preoccupata dalla scomparsa della passione.
Eppure una stagione nuova passerà solo da qui, da una politica che smette di occuparsi di beghe quotidiane o delle sempre prossime elezioni, ma ritrova la sua ragion d’essere: una politica che guarda in alto e scalda i cuori.
La scuola dell’assenza
In queste settimane è nato un piccolo ma significativo movimento. Nelle piazze d’Italia (in ordinata osservanza delle misure covid-19) insegnanti, studenti, genitori e famiglie si mobilitano per chiedere che a settembre sia garantita una ‘scuola in presenza’, perché al di là delle meraviglie dell’insegnamento a distanza e delle nuove tecnologie, «la scuola a distanza significa scuola dell’assenza». È una richiesta sacrosanta: ben vengano i nuovi e moderni strumenti, ma senza pensare che sia possibile surrogare la relazione diretta, il rapporto e il confronto in presenza tra docente e discente. A proposito: come al solito c’è il problema del personale docente insufficiente, come della moltitudine di docenti precari a vita e in attesa di essere stabilizzati.
La pandemia ha messo tragicamente in luce come due aree centrali del welfare italiano, la scuola e la sanità, siano state trascurate, abbandonate, lasciate senza investimenti e senza cura. Un ritardo, un abbandono (basta pensare allo stato di tanti edifici scolastici) che sarà impossibile colmare in pochi mesi. Ora qualche miliardo arriverà, anche se gli investimenti sono palesemente insufficienti per offrire un livello adeguato (siamo agli ultimi posti in Europa) a servizi fondamentali come la scuola e la sanità pubblica.
A settembre ci si arrangerà. Bene o male i nostri bambini e ragazzi torneranno a scuola, ma sarà importante non dimenticare che, covid o non covid, il grado di civiltà di un Paese si misura prima di tutto dal livello dei servizi che ci toccano da vicino, da quelle strutture che ognuno di noi incontra durante la propria vita. La scuola pubblica, come la sanità pubblica, aspetta un nuovo inizio.
Dopo aver vissuto la tragedia della pandemia, sarà più difficile trovare scuse.
Francesco Monini direttore di madrugada