150 anni di Unità d’Italia

di Opipari Marco

«La Costituzione italiana potrà riprendere la sua strada verso una democrazia sempre più piena e diventare una realtà politica se le nuove generazioni sentiranno il dovere di andare in pellegrinaggio con il loro pensiero riconoscente in tutti i luoghi di lotta e di dolore dove i fratelli sono caduti per restituire a tutti i cittadini italiani dignità e libertà. Nelle montagne della guerra partigiana, nelle carceri dove furono torturati, nei campi di concentramento dove furono impiccati, nei deserti o nelle steppe dove caddero combattendo, ovunque un italiano ha sofferto e versato il suo sangue per colpa del fascismo, ivi è nata la nostra Costituzione. Se essa può apparire alla decrepita classe politica che lotta vanamente per salvare i suoi privilegi come una inutile carta che si può impunemente stracciare, essa può diventare per le nuove generazioni, che saranno il ceto dirigente di domani, il testamento spirituale di centomila morti, che indicano ai vivi i doveri dell’avvenire».

«Disfattismo costituzionale e processo alla Resistenza sono due facce dello stesso fenomeno. La Costituzione infatti non è altro che lo spirito della Resistenza tradotto in formule giuridiche».

In questo monografico celebrativo del 150° anno dell’unità d’Italia, in un momento in cui le parole pronunciate da Piero Calamandrei appaiono troppo attuali, non si è voluto proporre una trita e sovrastorica celebrazione della memoria e delle identità nazionali, ma si è cercato di proporre, invece, un’analisi non retorica del dibattito e dello scontro di forze nel quale si inserisce la produzione simbolica dell’identità italiana, del suo punto di origine e dell’immaginario che esso implica, con le diverse rimozioni e revisioni di cui tale identità è stata oggetto.

In tal senso, il primo articolo a firma di Walter Baroni offre la possibilità di leggere tanto la giostra di revisioni cui è stata sottoposta la narrazione della storia nazionale, che le attuali politiche di riforma della Costituzione con la loro enfasi nazionalista, quali strumenti la cui posta in gioco è qualcosa di più e di diverso dal semplice ammodernamento istituzionale, ossia il tentativo di riscrivere la natura stessa dell’identità politica del Paese.

Nel secondo articolo Fabio Botto, attingendo diffusamente alla letteratura critica del periodo, individua nell’Italia risorgimentale l’origine di quei vizi che che spiegano lo stato attuale del Paese: quella vocazione e immaginazione riformiste, quelle suggestioni per una riforma religiosa realmente universale che avevano caratterizzato l’epoca rinascimentale, secondo questa lettura, vengono nel corso del XIX secolo ridotte a lettera morta.

Nello stesso solco si inseriscono, infine, le riflessioni di Giampiero Frasca, le quali prendono in esame il lato simbolico-culturale di questo passaggio d’epoca, attraverso un commento critico al film Noi credevamo di Mario Martone: un affresco, quello del regista napoletano, scevro da quegli orpelli e ghirigori retorici volti all’esaltazione patriottica, in favore di uno sguardo disilluso capace di restituire nella loro ampiezza e radicalità le contraddizioni storiche attraverso le quali si è finalmente determinata l’Unità d’Italia. Una complessità le cui verità concrete, per essere comprese, non possono passare solamente per il racconto cerimoniale e maestoso della storiografia nazionalista, ma devono necessariamente soffermarsi sulle singole vite che quella stessa storia hanno subita, o dalla quale sono state assoggettate, illuse piuttosto che tradite. Si tratta cioè, in questo film che è un vero e proprio documento, di restituire alla propria dignità il ruolo che nella storia i singoli individui, costretti nelle reciproche posizioni, devono giocare come attori sociali. Un’attenzione verso il soggetto che, come ci ricorda ancora Piero Calamandrei, corrisponde prima di tutto a una «rivendicazione della libertà dell’uomo, persona e non cosa».