Vivere o sopravvivere?
L’incontro con i vecchi amici
Ero a cena con degli amici che non vedevo da molto tempo, ragazzi della mia età, ventitré anni, alcuni erano compagni di classe, altri conosciuti in parrocchia; insieme abbiamo condiviso molte esperienze ma poi, per vari motivi, ci siamo persi di vista. Ero contento di rivederli, avevo tante cose da raccontare ed ero curioso di sapere di loro, della loro vita, del loro lavoro, dei loro progetti, dei loro sogni. Ero euforico quella sera prima di partire, finalmente rincontravo i miei amici, ma mi resi subito conto che avevo di fronte a me quattro persone totalmente diverse da come le avevo lasciate. Per tutta la sera abbiamo ricordato il passato, commentando ogni aneddoto con “…quelli sì che erano bei tempi!”. Non volevo credere che miei amici vivessero già di ricordi, con lo sguardo rivolto al passato, timorosi di guardare in faccia il loro futuro.
Rassegnazione e diffidenza
Ciò che mi ha lasciato perplesso di questo incontro è stato vedere i miei amici condividere una posizione di inerzia e apatia rispetto al trascorrere della loro vita, quasi naufraghi in un destino padrone del loro futuro.
Le loro energie sembravano imbrigliate da una sorta di rassegnazione che non permetteva loro di ribellarsi e di riprendere in mano le redini della propria vita riscoprendo la gioia di vivere.
Questa rassegnazione li portava a difendersi e a far proprio uno stato di diffidenza: diffidenza verso lo stato, la società, gli affetti e, non ultimo, diffidenza verso l’altro. Non fidarsi dell'”altro” era considerato normale, questo li portava a non riconoscere e accettare l'”altro” e la sua diversità come risorsa e quindi a non affrontare in modo libero il rapporto molto spesso succube di pregiudizi, di presupposti, discriminazioni e modelli che ci costruiamo a priori.
Osservandoli mi rendevo conto che non era solo un problema loro: devo ammettere che anch’io non sempre riesco a scorgere dietro un volto una risorsa, non sempre riesco a “ringraziare Dio” per questa o quella presenza e mi capita perciò di giudicare a priori le persone, di etichettarle e di chiudere ogni possibilità di rapporto. Superficialità o ingenuità?
Se fossimo tutti astronauti
Quella sera, quindi, è stata per me un’occasione per pensare un po’ alla mia vita, a ciò che più mi ha irrigidito davanti ad una persona, a ciò che blocca lo scorrere di quell’energia positiva che passa per un sorriso o con un abbraccio.
C’è una cosa che mi ha sempre limitato nel rapporto con l’altro: l’incontro per me era sempre carico di aspettative, forse avevo la pretesa di cambiare la realtà che mi circondava e tutte le mie energie erano veicolate all’esterno, tutte le mie attenzioni erano riposte fuori dalla mia persona. Queste aspettative però, portavano con sé spesso rabbia, delusione, amarezza o una gioia artificiosa ma, soprattutto, mi impedivano di scoprire la gratuità nel rapporto con l’altro.
Solo ora inizio a scoprire la potenza dell’incontro nella dimensione di uno spazio gratuito, in cui i margini entro cui oscillano le mie emozioni si dilatano fino a toccare estremi mai raggiunti: il quotidiano assume un valore diverso, il volto dell’altro viene ripulito da tutto ciò che mi impediva di vedere l’originalità e l’unicità dell’uomo. Solo così tutto ciò che mi circonda si riappropria del suo reale valore.
Ecco ciò che mi emoziona e mi stupisce: riscoprire attorno a me una realtà nuova e vedere tutto da una diversa prospettiva, che mi permette di scavalcare ogni ostacolo e andare all’essenza delle cose e delle persone.
Mi sento così proiettato in una dimensione più ampia del mio quotidiano e spesso mi capita di immaginarmi astronauta a guardare giù verso la terra e di vederla e sentirla come un unico nucleo familiare: mi sento davvero cittadino del mondo, o, meglio, figlio di questa Terra, con tutto il carico di responsabilità ed emozioni che ciò comporta.
Rispolverando il cassetto delle utopie
Quella sera, a cena con i miei amici, si ricordava quando, anni fa, si ritornava a casa dai molti campi scuola trascorsi insieme, carichi di bei propositi, di speranze, di attese, puntualmente rinchiusi nel cassetto delle utopie perché li ritenevamo dovessero essere nascosti.
Ed io affermavo che era il momento di riaprire quel cassetto, di rispolverare quelle antiche ma sempre attuali utopie. Loro hanno risposto che tutto era inutile, che non sarebbe servito a niente, da soli non si cambia nulla.
Mi chiedo se questa rassegnazione sia irreversibile e come possa io essere testimone di un messaggio di speranza.
Credo che dentro ad ognuno di noi ci sia un’energia positiva più o meno repressa, che si può liberare e ciò è possibile nella misura in cui riusciamo a manifestarci all’altro con libertà, gratuità, verità e così facendo, saremo i migliori testimoni di un messaggio di speranza e di vita.
Evitare gli eventi che ci presenta la vita, rinchiudersi nel proprio guscio, è un po’ come morire e di quella sera ho la sensazione che avrei potuto fare qualcosa per i miei amici. Ora sono sicuro che i sogni e le utopie rinchiusi nel cassetto non si conservano ma muoiono e allora liberiamoli per, finalmente, vivere e volare controvento.
Marco Lazzaretto
Studente universitario
di Architettura