Vi riconosceranno dai frutti

di Deganello Sara

Appunti per un futuro possibile

Una nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose […] costituiscono quest’anima. […] una è il comune possesso di una ricca eredità di ricordi; l’altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa. […] Aver compiuto grandi cose insieme, volerne fare altre ancora, ecco le condizioni essenziali per essere un popolo (E. Renan, Che cos’è una nazione?, 1882).

Quando ancora si pensava che la Costituzione europea fosse un piccolo passo per l’Europa e un grande passo per l’umanità, e si credeva che per questo progetto il consenso dei popoli di buona volontà dovesse essere unanime, la discussione intorno al fatidico documento era tanto profonda e cruciale quanto il passaggio epocale richiedeva. Nella scelta dei principi e dei cardini con cui tenere insieme gli (allora) quindici Paesi, il punto focale di cui si parlò e sparlò era una questione di radici. Radici cristiane. Laici e credenti, atei e chierici, papi e primi ministri: tutti si premurarono di dire la loro. Alcuni, più arditi, ricordarono che, secondo il Vangelo, se la pianta non dà frutto si taglia e viene buttata nel fuoco. Forse il dibattito, più che di radici, doveva davvero preoccuparsi dei frutti.

Alcuni tra i germogli nati su quei ceppi furono il funerale laico di Piergiorgio Welby, un documento che ordina a deputati e senatori della Repubblica di non votare i Dico, la messa in latino per chi vuole ripristinare l’unità dell’imperium universalis. Frutti dedotti logicamente dalle premesse, dalle radici della dottrina che sono la base della costruzione ideologica, dove il prodotto è sempre già contenuto nell’idea fondante e nel suo apparato corollario di norme. Non

occorre nemmeno che ci sia una vita a cui applicarle, le norme, con amori imprevisti e moti spontanei dell’anima: l’ideologia vive da sola. Per fortuna una pianta non genera fiori e frutti a somiglianza delle radici: esse sono solo una funzione, un’ancora, un inizio. Il frutto dipende dalla natura della pianta, dalla sua forza, dalla pioggia e dal sole. Il popolo europeo non capì, i gemelli Kaczynski, in prima fila, neppure.

Sono tornata a casa poco tempo fa. Nel «paesello», come lo chiamano i miei colleghi milanesi. Era in corso una rievocazione storica del voto alla Madonna, evento antico di oltre tre secoli, al tempo della peste, con figuranti e voci recitanti. Sono andata a vederla. All’epoca, i capifamiglia del borgo avevano deciso di chiedere alla Madonna dell’Angelo di liberarli dal morbo. In cambio, ogni anno, la quarta domenica di luglio, il sindaco e il parroco della comunità sarebbero saliti al santuario mariano a sciogliere la promessa. La peste finì: la macumba aveva forse sortito l’effetto richiesto, e gli uomini mantennero la parola data. Continuano a farlo anche adesso, anzi, ora ne dissotterrano pure la storia, le voci, i volti, e celebrano la promessa come se fosse un evento straordinario. Tirano fuori dalla nebbia dei secoli cavalli, stallieri un po’ rozzi, popolani, arrotini, bimbetti cenciosi, lebbrosi ammucchiati sui carri, un sindaco col cappello piumato, un parroco dal nero tricorno, contadini con la gerla, matrone rosse e bianche che portano cesti pieni di frutta, i messi della Serenissima Repubblica venuti a portare gli ordini pratici del doge in fatto di igiene e di prevenzione del contagio. Che cuccagna per il sindaco leghista, in prima fila, a dar voce alla litania dei ringraziamenti, gongolante per il successo dell’iniziativa davanti all’operatore di RaiSat tutto sudato. Un intero paese in brodo di giuggiole per le gesta «dei nostri padri», e pazienza se gli sbandieratori e la frotta di scudieri con i tamburi sono un po’ fuori luogo: «I nostri ragazzi hanno fatto le prove tutto l’inverno, e si sono divertiti moltissimo», parola di mamma. Non avevo mai visto nel mio paese un tale fervore nel fare una cosa tutti insieme. Forse solo quando la nazionale di calcio ha vinto il mondiale, ma là la festa era spontanea, qui coordinata e organizzata, con mesi di preparazione alle spalle. Gente di destra, di sinistra, vecchi, bambini, famiglie, baciapile e mangiapreti, giovinastri da bar e animatori dell’azione cattolica, cacciatori e animalisti. Tutti insieme indaffarati a rispolverare le proprie radici, la base per cui siamo quello che siamo: l’identità storica di una comunità. Il paesello compatto si riconosceva in un progetto passato, defunto, sepolto, chiuso in se stesso. Un cerchio autoreferenziale, che, come tutti gli inizi di epopee, non presenta ancora la possibilità di relazioni esterne. Poco male: il mito fondatore rinvigorisce gli animi, dà fiato alle trombe, riempie d’orgoglio i petti. Queste radici potenti non sarebbero forse sfigurate nell’atto legislativo originario della comunità. Peccato che di frutti, quella sera, a parte quelli del cesto della matrona rossa e bianca, non ce ne fosse nemmeno l’ombra. A fare gli epigoni, sembra, son buoni tutti. A trovare soluzioni nuove al vivere insieme, quasi nessuno.

Quella cellula umana riunita intorno ai lebbrosi seicenteschi si ritrova sul proprio territorio comunale, un auditorium del XXI secolo da 200 posti, nuovissimo, ultimato da pochi di mesi. Ma che non è ancora stato aperto. Ilàmotivo? Elementare: è stato voluto e realizzato dalla giunta precedente, del colore politico opposto all’attuale, togliendo posti al parcheggio del mercato cittadino del venerdì, ritrovo abituale delle massaie e degli adolescenti che quando non vanno a scuola escono a prendersi le patatine fritte. L’attuale sindaco non l’ha mai voluto e ora, per quanto in suo potere, fa finta che non ci sia. Molto meglio offrire al popolo un rifugio nel sano passato, che mai non torna e che rimane innocuo nella sua immacolata verità e giustizia, piuttosto che creare un ricettacolo di esperienze e idee nuove sovversive da etichettare sotto il titolo di «cultura, informazione, educazione». Il futuro, e i frutti che porta con sé, sono molto incerti, soprattutto se ognuno pensa con la propria testa e poi si deve accordare con gli altri, tirando in ballo addirittura la politica. Forse sarebbe meglio evitare. È quello che vuole la Lega nei paeselli, lontani dai crocevia delle grandi città, viste come luoghi di incontro per visioni alternative e complesse della vita. E in questo la Chiesa le dà man forte: non a caso, forse, era dietro alle quinte dei lebbrosi, regista della rievocazione storica del voto. Un filosofo che amo molto, Emmanuel Lévinas, ebreo, ha scritto che il nazismo è un essere inchiodati a terra: al passato, alla cifra biologica, etnica del proprio essere. Un essere fissi con la testa rivolta indietro, senza nessuna responsabilità. La responsabilità viene dalla scelta, la scelta è una possibilità negata da tutti i totalitarismi come da qualsiasi ideologia.

Nella redazione di Milano del Sole 24 Ore c’è gente di tutta Italia. Calabresi, siciliani, lucani, sardi, veneti, emiliani, sabaudi, romani, umbri, lombardi, toscani… di tutto. Ognuno racconta con gusto la storia del proprio «paesello», gli usi e costumi del luogo natio, le scorribande della formazione e i dolci che faceva la mamma. Si tratta di un otium, una parentesi, un punto che chiarisce l’identità dell’oratore mostrando la base da cui è partito. Nessuno celebra eccessivamente, a parte ovviamente i milanesi, il luogo da cui proviene, altrimenti non si spiega perché non sia rimasto da dove è venuto, se la nostalgia e il rimpianto sono così forti. Tutti sono arrivati a Milano con un’idea ben precisa: un progetto che nasce e poi si sviluppa nel lavoro insieme, nelle competenze condivise, nel gioco di squadra, nei punti di vista diversi che dialogano tra loro, nella rete di relazioni che si instaura. Il futuro viene costruito ogni giorno e ogni notte nell’open space (spazio aperto, ndr) delle redazioni: il futuro dell’Italia, dell’opinione pubblica, dei cittadini stessi. È solo un esempio, e certo se ne potrebbero fare molti pensando ad aziende che vivono e prosperano grazie al lavoro di gruppo di elementi eterogenei attorno a un’idea: sono aziende che creano, nel bene e nel male, la cultura dominante in assenza di una proposta politica forte, dirigente. In questo caso, il rischio è che gli interessi di una piccola parte prendano il sopravvento: il punto di forza infatti dovrebbe essere il dialogo, la concertazione, la collaborazione di tutti attorno a un’idea. L’idea apre gli spazi di manovra: è solo la direttrice lungo cui si può procedere. Non sfocia nella rigida ideologia. È un «non ancora», un progetto e un’occasione di responsabilità, la volontà di guardare avanti e di vedere cosa si può ancora costruire. Il terreno fertile su cui può veramente germogliare l’albero che dà frutti.