Una proposta al disagio
Comunità familiare, comunità scolastica, comunità ecclesiastica, comunità terapeutica, esperienze diverse che hanno lo stesso comune denominatore: lo stare con, l’andare verso.
Presupposto essenziale: accorgersi della presenza dell’altro.
Atteggiamento necessario: riconoscere il proprio bisogno e permettere all’altro di venirti vicino e prendersi cura di te.
In una cultura che sempre più fomenta un comportamento fortemente autocentrato, dove un narcisismo spesso esasperato non lascia spazio che alla cura di sé, e la difesa dei confini personali e familiari oscilla tra una eccessiva rigidità o un marcato disimpegno, non è facile trovare la giusta misura, il corretto rapporto, l’adeguata distanza tra sé e gli altri. Ed è ancora più difficile immaginare un percorso, ipotizzare un progetto pensato e voluto con altre persone, un mettersi in cammino assieme. Eppure l ‘io sta sempre, e inevitabilmente, di fronte all’altro, vicini o lontani che siano, rimangono una provocazione: fare esperienza di una comune-unità può essere una risposta vitale e creativa a questa pro-vocazione.
Chiuso nel dolore
In preda al dolore fisico l’uomo, naturalmente, si piega, si rannicchia, cerca sollievo magari recuperando la posizione fetale, quasi un automatismo che da solo rievoca un momento lontano e mitico in cui stato di benessere, protezione, accoglienza si sono indissolubilmente coniugati con l’amore materno non ancora percepito come altro da sé.
Anche di fronte al dolore psichico l’uomo si chiude, si mette al riparo innalzando barriere, mura domestiche, penitenziarie, manicomiali, contengono il disagio, rinchiudono e nascondono la sofferenza. Proprio quando ha più bisogno d’aiuto l’uomo diventa impenetrabile, insondabile, irraggiungibile. Trincerato nel proprio guscio cerca, molto spesso, da solo le proprie vie di uscita: stati depressivi, comportamenti dipendenti, devianti, autolesionisti sono tentativi di trovare una risposta, una confusa ricerca di senso da dare all’esistere. Nella sofferenza la relazione spesso si inceppa e così aprirsi agli altri, condividere la fatica di vivere, cercare il confronto diventano conquiste difficili, lente, graduali, perché il dolore accovaccia psicologicamente e fisicamente l’uomo su se stesso.
La comunità:
uno stile di vita
La nostra filosofia
Siamo qui perché non c’è alcun rifugio dove
nasconderci da noi stessi.
Fino a quando una persona non confronta se
stessa negli occhi e nei cuori degli altri, scappa.
Fino a che non permette loro di condividere i suoi
segreti, non ha scampo da questi.
Timoroso di essere conosciuto non può conoscere
né se stesso né gli altri, sarà solo.
Dove altro se non nei punti comuni possiamo
trovare un tale specchio?
Qui insieme una persona può alla fine
manifestarsi chiaramente a se stessa, non come il
gigante dei suoi sogni né il nano delle sue paure,
ma come un uomo parte di un tutto con il suo
contributo da offrire.
Su questo terreno noi possiamo tutti mettere radici
e crescere,
non più soli come nella morte,
ma vivi a noi stessi e agli altri.
(Centro Italiano di Solidarietà)
Quando si approda allora in una comunità terapeutica? Molto spesso quando si è fatta terra bruciata tutto intorno, quando si è toccato il fondo e sembrano non esserci più appigli, quando i giochi sono scoperti e degenerati al punto che nessuno riesce più a reggerli. Oppure quando la morte ha alitato sul collo e questo brivido scatena le energie assopite dell’istinto di sopravvivenza che spinge ad aggrapparsi ad un’ultima occasione, ad una proposta di guarigione.
Esiste una letteratura ormai molto ricca ed aggiornata sulla nascita e lo sviluppo delle comunità terapeutiche in Inghilterra, in America e in Italia: nel 1919 lo psichiatra J.J. Moreno inventò lo psicodramma e molti tipi di terapia di gruppo, nel 1935 una grande novità nella terapia svolta da non professionisti, e legata al movimento delle comunità terapeutiche, fu la creazione e lo sviluppo degli Alcolisti Anonimi, nel 1945 Maxwell Jones pensò ad un tipo di comunità negli ospedali psichiatrici inglesi dove poter sfruttare il potenziale terapeutico dell’esperienza di gruppo condotta dai pazienti. Impossibile trattare l’argomento per esteso, pur rischiando una inevitabile semplificazione vale la pena soffermarsi su alcuni punti fondamentali.
La comunità è nata quando alcune persone comuni, con lo stesso vissuto di alcolismo e tossicodipendenza, cominciarono ad incontrarsi per proprio conto, per raccontare in gruppo le proprie storie, per sfogare e condividere il malessere: presto compresero che la rabbia, i fallimenti, le esperienze affrontate erano, in fondo, quelle di tutti. Tra loro si capivano al volo perché i vissuti erano gli stessi, smascheravano con estrema facilità menzogne ed autoinganni, trucchi del mestiere che riconoscevano come propri; sapevano dare un nome ai veri bisogni e trovavano, così, il giusto modo di aiutarsi. Da questi primi gruppi è nata l’esigenza di tentare una temporanea convivenza, fare comunità giocandosi i rapporti fino in fondo: esiste, infatti, un legame stretto e naturale tra il gruppo e la comunità, stare in gruppo è una condizione preliminare, fondamentale per poter poi vivere un’esperienza di tipo comunitario.
Poche regole semplici, chiare e condivise riuscivano a dare ordine alla vita di sbandati e barboni, tossicodipendenti e alcolizzati: era vietato qualsiasi uso di sostanze, erano previsti gruppi di verifica di vario tipo che agivano come una pentola a pressione nel disinnescare tensioni, aggressività, facilitando l’espressione delle emozioni e il riconoscimento della propria storia personale. Vi era poi un tempo per il divertimento e uno per il lavoro. La forza di queste prime comunità informali era la possibilità di sperimentare concretamente, sulla propria pelle, ogni giorno, l’importanza dell’altro che stava implacabilmente di fronte e fungeva da specchio nel quale, riflettendosi, lentamente ci si riconosceva. La comunità terapeutica veniva vissuta come “famiglia sostitutiva guaritrice”, spazio di accoglienza e di condivisione reale, concreto, che nel suo prendersi cura non si limitava ad eliminare il sintomo, l’abuso di sostanze stupefacenti o di un qualsiasi altro disturbo, ma era in grado di rispondere ad un bisogno più grande: vivere un senso di comune-unità, di appartenenza tale da agire da scudo protettivo alla profonda sofferenza esistenziale che li attanagliava: la solitudine e l’alienazione. Vivere assieme diventava una sfida vitale, un’opportunità per sopravvivere al proprio passato, un ponte teso ad una progettualità futura; onestà, responsabilità e chiarezza erano, e sono tuttora, i valori fondamentali condivisi verso cui tendere.
La comunità terapeutica
ieri e oggi
Come spesso, per fortuna, succede, la geniale intuizione di alcuni è diventata, ormai, patrimonio culturale di molti; le esperienze di comunità maturate tra gli anni ’50 e ’60 a New York come a Los Angeles sono state metabolizzate e rivisitate: ai fondatori carismatici, leaders indiscussi dei primi tempi, si sono lentamente sostituite strutture organizzative più complesse e democratiche dove anche gli spazi decisionali sono gestiti da più figure con ruoli e funzioni diversificate. L’egemonia maschile è sempre più diluita dalla presenza di figure femminili presenti nelle varie fasi del programma terapeutico. Al pionierismo iniziale è andata sostituendosi una prassi terapeutica di stile cognitivo comportamentale elaborata grazie all’apporto di modelli teorici rispettosi della filosofia degli inizi.
Ancora oggi vivere in comunità è darsi delle regole, calibrare i confini, organizzare la giornata, prendere decisioni, rispettare i tempi e le cose, prendersi cura delle persone, privilegiare momenti di confronto e verifica personali e di gruppo, impegnarsi assieme per un bene comune, un bene più grande che trascende se stessi. Oggi la comunità non è più solo un contesto chiuso di terapia e riabilitazione esclusivamente per persone con vissuti di dipendenza e devianza, da tempo ormai anche le famiglie dei ragazzi entrano nella struttura per verificarsi con gli ospiti ed essere coinvolte nell’iter terapeutico, diventando così parte integrante del processo di trattamento. Si è ormai consolidata, infatti, una visione sistemico relazionale che tende a vedere il tossicodipendente, e chiunque presenti un disagio psichico, come l’anello debole di una catena di relazioni (familiari, scolastiche, sociali…) che ha al suo interno elementi di disturbo capaci di generare sofferenza. Il paziente “designato” non manifesta dunque una sofferenza legata solo alla propria storia personale, ma si fa carico di esprimere il malessere della relazione che coinvolge tutti i partecipanti del sistema. Curare il malato significa prendersi cura, quando è possibile, anche della sua famiglia cui viene proposto di partecipare ad un gruppo appositamente calibrato. Oltre ad aprirsi a quest’ultima, la comunità terapeutica tende sempre più ad agganciarsi al proprio territorio: al mondo della scuola, dove opera interventi di prevenzione alle tossicodipendenze e di educazione alla salute, all’associazionismo all’interno del quale organizza dei corsi di formazione per volontari e animatori. Riconosciuta ormai come un luogo di accoglienza, uno spazio culturale attento e disponibile, la comunità sta diventando sempre più un osservatorio privilegiato sul disagio giovanile, vigila e denuncia le nuove emergenze sociali che la chiamano in causa: minori a rischio per disturbo di adattamento sociale, popolazione detenuta tossicodipendente extracomunitaria, nuove droghe e nuove dipendenze. Si tratta di sfide sociali impegnative a cui bisogna riuscire a dare una risposta, continuando ad accogliere e ad operare in prima linea.
L’obiettivo fondamentale del lavoro svolto in comunità, verso cui tendono gli sforzi dei ragazzi, degli operatori e dei volontari è la ricerca di uno stile di vita che permetta di vivere le relazioni con equilibrio, onestà e responsabilità, escludendo mediatori quali le sostanze, promuovendo il reinserimento sociale attraverso una esperienza di condivisione rispettosa della pluralità dei valori e della diversità di ognuno. Ci vuole coraggio e tanta umiltà, il confronto quotidiano con i compagni di cammino serve proprio a questo: vedere riconosciuti i propri progressi ed essere richiamati sui comportamenti poco adeguati per il raggiungimento della meta: riconoscersi il diritto e la possibilità di rinascere, rilanciare le proprie carte senza più giocare d’azzardo.