Una diversa amministrazione dei conflitti
Tolleranza, dialogo, solidarietà
L’amico Daniele Lugli mi ha chiesto per questa rivista un intervento di «7000 battute» sull’interrogativo «cosa resta della nonviolenza».
Una prima battuta da fare è che in settemila battute non si possono che fare sei o sette battute sull’interrogativo posto.
L’interrogativo contiene domande complesse e un tentativo di risposta dipende, ovviamente, in primo luogo, da che cosa s’intende per «nonviolenza», e a quali livelli l’interrogativo è posto. Una volta chiariti questi termini, il resto è lavoro di paziente ricerca empirica che richiede il suo tempo e le sue metodologie.
Non ho fatto una ricerca empirica dettagliata e sistematica su cosa resta della nonviolenza – nemmeno sugli studi empirici che esistono in merito a tale questione – e, di conseguenza, qui non cercherò di rispondere direttamente all’interrogativo che mi è stato posto: non dirò «cosa resta della nonviolenza»: mi limiterò a indicare (in poche battute) dove va cercato, a mio avviso, quello che «resta della nonviolenza», per quanto riguarda:
a) la gestione nonviolenta dei conflitti;
b) l’elaborazione e diffusione della cultura della nonviolenza;
c) la ricerca scientifica su e per la nonviolenza.
La gestione nonviolenta dei conflitti
Se il termine «nonviolenza» è applicato a modi di gestione dei conflitti (e più in generale a relazioni umane) che non comportino l’uso della lotta armata, o più in generale della forza fisica distruttiva, è chiaro che cosa resta della nonviolenza va cercato a vari livelli: a livello puramente individuale, va cercato in tutta la miriade di rapporti interpersonali giornalieri di non aggressione fisica, di convivenza pacifica, di compromesso, cooperazione, tolleranza, dialogo, empatia, solidarietà, fiducia, reciproco rispetto, amicizia, amore, perdono; a livello di lotte di gruppo, cosa resta della nonviolenza va cercato negli scioperi e altre lotte civili in atto quotidianamente nel mondo per ottenere determinati obiettivi economici, nelle trattative e negoziati che sono attualmente condotti per raggiungere soluzioni accettate di conflitti, nella varietà delle lotte non armate in atto in varie parti del mondo: lotte contro il militarismo e la corsa agli armamenti, contro le guerre in corso in Iraq, Afghanistan, Africa, lotte per la liberazione da sistemi militaristi oppressivi (movimenti nonviolenti in Birmania), per la conquista di autonomie regionali (Tibet e movimento nonviolento guidato dal Dalai Lama), per potenziare processi dal basso di pacificazione equa in aree ad alto tasso di conflittualità armata (movimenti israeliano-palestinesi per uscire dalla spirale della violenza e realizzare una pace equa nella regione, movimenti nonviolenti per uscire dalla lunga e controproducente guerra civile in Colombia), lotte civili in atto per la conquista o difesa di diritti umani basilari (diritto alla libertà dalla fame, diritti delle donne, diritti degli omosessuali, diritti di minoranze illegittimamente discriminate, diritto all’obiezione di coscienza in paesi dove tuttora vige il servizio militare obbligatorio), per i diritti degli animali, per la salvaguardia dell’ambiente; a livello collettivo-istituzionale cosa resta della nonviolenza va cercato nei vari luoghi del mondo dove sono in atto complessi e difficili, e anche problematici, processi di riconciliazione dopo lunghi periodi di lotte violentissime (Sud Africa, Burundi, Rwanda, Timor Est, ex Jugoslavia). E va pure cercato nella quarantina di contemporanee comunità indigene stabilmente pacifiche studiate dagli antropologi, comunità con un tasso molto basso di aggressività distruttiva e permeate da una cultura che favorisce la conduzione dei conflitti in modi incruenti. Ma il luogo forse più importante dove cercare cosa resta della nonviolenza è dovunque nel mondo i conflitti di gruppo – anche molto aspri – sono gestiti secondo le regole del metodo democratico basate sul principio nonviolento del contare le teste invece che tagliarle.
La cultura della nonviolenza
Vi è oggi nel mondo una miriade di attività volte a promuovere una cultura della nonviolenza. Anche qui la ricerca su cosa è rimasto della nonviolenza va fatta a vari livelli: a livello di educazione, la ricerca va orientata sulla vasta gamma dei processi educativi nella famiglia, nella scuola, specie quelli nell’ambito dei quali viene messo in particolare rilievo il valore della tolleranza, della cooperazione, della fiducia nell’altro, e dello stretto nesso che intercorre tra educazione alla nonviolenza ed educazione alla cittadinanza democratica; a livello di formazione, la ricerca va orientata sui percorsi formativi per la pace con mezzi pacifici condotti in scuole, centri di formazione, università; a livello di informazione, nella diffusione e divulgazione di concezioni comprensive della nonviolenza che vanno oltre la nonviolenza intesa come l’insieme del metodo di lotta non armata (nonviolenza come dottrina etico-politica di Gandhi, di Martin Luther King, di Capitini e tanti altri); a livello di comunicazione, nella miriade di media alternativi per la pace e la nonviolenza (variamente intesa) attivi nel mondo (giornali, riviste, siti internet, iniziative editoriali, centri e istituti per la pace e la nonviolenza, ecc.); a livello di elaborazione critica, nella ricca riflessione in atto volta a elaborare una nozione ben articolata di cultura della nonviolenza. Tutte queste e altre collegate attività di promozione di una cultura della nonviolenza sono in parte anche favorite e, per così dire, formalmente sancite dalla decisione, presa il 10 novembre 1998, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di decretare il periodo 2001-2010 «Decade per una cultura di pace e nonviolenza per i bambini del mondo».
La ricerca scientifica
Nell’ambito di istituti universitari e centri di peace research si conduce da almeno una cinquantina di anni un’intensa ricerca scientifica sulla nonviolenza e per la nonviolenza. Cosa resta della nonviolenza va anche qui cercato in varie direzioni: nella riflessione critica sulla nozione stessa di nonviolenza’, e negli studi volti alla elaborazione critica di una comprensiva dottrina della nonviolenza che fa tesoro del pensiero-azione di Gandhi e ne mette sistematicamente in luce tutte quelle componenti che sono giudicate di grande attualità; nella teoria della trasformazione dei conflitti che si è andata sviluppando e che ha fatto anche tesoro dalla filosofia gandhiana dei conflitti; nelle conoscenze scientifiche che si sono andate accumulando – grazie agli studi di psicologi, sociologi, politologi – sulle condizioni e i meccanismi della gestione incruenta e costruttiva dei conflitti; nelle conoscenze storiche sistematiche che oggi abbiamo – grazie agli studi di validi storici – sulle lotte condotte nel passato con mezzi incruenti, specie quelle realizzate nel secolo scorso, e negli studi e analisi che sono condotte in centri di ricerca sulle lotte nonviolente oggi in atto nel mondo. Grazie a questo corpo di conoscenze scientifiche, e alla ricerca, oggi sappiamo molto di più di quanto non si sapesse soltanto mezzo secolo fa sulla «teoria e pratica della nonviolenza».
Cosa resta della nonviolenza va ulteriormente cercato nelle forze costruttive insite (assieme a quelle distruttive) nella natura umana – nelle capacità degli umani di dialogare, collaborare in progetti costruttivi, istituire relazioni di reciproca fiducia, creare istituzioni volte a prevenire la gestione distruttiva dei conflitti – forze costruttive sviluppate (penso) per ragioni di sopravvivenza nel lungo corso dell’evoluzione e oggi di cruciale importanza per la sopravvivenza stessa del genere umano.
Da ultimo, Cosa resta della nonviolenza va cercato nel bisogno di nonviolenza che si manifesta nel mondo a vari livelli in seguito all’accresciuta conoscenza che abbiamo dei processi perversi della brutalizzazione, della disumanizzazione dell’altro, della deumanizzazione di sé, processi strettamente connessi con l’uso e l’escalation della violenza armata – ma non solo con essa – e in conseguenza della coscienza che la via della violenza si prospetta sempre di più come una via senza ritorno.
Giuliano Pontara
È uno dei massimi studiosi della nonviolenza a livello
internazionale. A vent’anni, in opposizione al servizio militare,
ha lasciato l’Italia per la Svezia, dove ha insegnato Filosofia
pratica per oltre trent’anni all’Università di Stoccolma.
Negli ultimi decenni ha insegnato in numerose università
italiane. Componente delle più importanti istituzioni
internazionali sui temi della pace dei diritti umani. Autore
di opere fondamentali sulla nonviolenza, con particolare
riferimento al pensiero e all’azione di Gandhi.