Un popolo silenziosamente disperato
Caro direttore,
purtroppo ti scrivo dopo essermi privato di una parte del mio cuore, perché l’ho lasciata in Brasile. Mi hanno detto che la prima volta succede sempre.
Le tracce del mio primo viaggio laggiù sono così profonde da fare quasi male. Mi sono rimasti ricordi dolcissimi, immagini crude e violente di povertà e di miseria, tanta nostalgia e soprattutto il desiderio di fare la rivoluzione, accompagnato dalla rabbia di non sapere come farla.
A un osservatore minimamente attento non può sfuggire la complessità dei problemi e la loro paradossale semplicità. Ho incontrato un Paese inginocchiato e un popolo piegato da uno sfruttamento secolare, un popolo che deve ancora imparare a convincersi di essere popolo e quindi di essere un insieme di uomini e di donne che sono innanzitutto persone, esseri umani con il diritto di condurre un’esistenza dignitosa e di affermare la propria libertà. Infelicemente questa consapevolezza manca, perché manca la volontà di educare e di aiutare a crescere e a capire. Quello brasiliano è un popolo-bambino che nessuno vuole aiutare a diventare grande, così da poter prendere in mano la propria vita e assumere le proprie responsabilità.
Il Brasile è come i suoi bambini: soli, abbandonati o quotidianamente violentati nel corpo e nello spirito da una società cattiva e disumana, ma pur sempre bambini, con la loro voglia di giocare e di vivere e con le loro infinite potenzialità. Vuoi bene al Brasile come vuoi bene a un bambino e ti fa rabbia, una rabbia infinita, sapere che i bambini, proprio perché innocenti, sono sempre i primi a pagare. Come si può pensare che una società che fa del male ai bambini sia avanzata o sviluppata?
Il male che attraversa la società latino-americana non è poi tanto oscuro. Al contrario, è chiarissimo: si chiama Occidente. Ma gli possiamo dare altri nomi: America, Europa, capitalismo, multinazionali e via discorrendo. Resta in ogni caso la perversione di un sistema che spegne lentamente il diritto alla vita. La trasparenza dell’annuncio evangelico si incontra quotidianamente con le legioni di cameleiros, meni-os da rua, engraxates, ladruncoli, prostitute, contadini affamati, ammalati non curati, analfabeti, lavoratori schiavi, poveri di ogni specie che si vedono privati giorno dopo giorno, non dico del diritto all’abbondanza, ma almeno di quello alla vita.
Lascio a te, che conosci il Brasile molto meglio di me, ogni possibile analisi strutturale, che forse un giorno potrò fare anch’io. Ma c’è una cosa che né tu né io né altri potremo mai capire: come mai questo popolo non urla mai la disperazione che si porta dentro. È sempre così silenziosamente disperato. E quando esce dal suo silenzio, lo fa per manifestare una gioia che non si capisce mai quanto sia vera: la musica, il futibol, quel meraviglioso senso della festa.
Ho portato a casa la saggezza profonda delle persone semplici e la consapevolezza che il Dio di Gesù Cristo abita lì, sicuramente più vicino alla favela Rocinha che non ai palazzi blindati della Barra o di Ipanema, anche se, in cuor mio, ho provato la debolezza dell’invidia per una ricchezza così incontrollata.
Spero di essere perdonato, non per me, ma per il popolo del quale mi sono innamorato e al quale ti prego di passare la mia dichiarazione di affetto.
Castano Primo (Mi), 14/10/1995