Un passo avanti in direzione della giustizia
“Il giogo che pesava sul popolo dei poveri
e la sbarra sulle sue spalle,
il bastone del suo aguzzino
tu hai spezzato…
Perché ogni calzatura di soldato nella mischia
e ogni mantello macchiato di sangue
sarà bruciato,
sarà esca del fuoco”.
[Isaia 9,3-4]
All’angolo del Paseo Ahumada il piccolo corteo si arresta. Sono le 13, l’ora in cui gli uffici del centro di Santiago del Cile si svuotano per la pausa mensa. La folla brulicante si ferma, adesso che sono comparse le donne dei desaparecidos. E si fa un assoluto, drammatico silenzio quando una signora dal volto ancora giovane ma dai capelli grigi, esce dal gruppo e comincia a ballare.
La guardiamo rabbrividendo perché la donna balla come se stringesse accanto al suo un caro corpo, balla con qualcuno che non c’è più, fluttua nella memoria come un’ombra. Il ballo della donna si chiama queca, è la danza nazionale cilena: ballo di innamorati che si stringono sfrontatamente proclamando orgogliosamente il loro amore; ma questa è una queca particolare, è la queca sola, le donne desaparecidos non hanno più “cavaliere” né notti d’amore. E poiché le loro manifestazioni pubbliche sono state sempre duramente represse, hanno imparato questa straziante forma di protesta: i carabineros non possono arrestare una povera pazza che balla da sola.
Le tombe sono rimaste vuote
Quando ho pianto davanti a quel ballo, all’angolo del Paseo Ahumada era il 15 dicembre 1989, il primo giorno del ritorno della democrazia in Cile, dopo elezioni finalmente libere. Le donne dei desaparecidos (le mogli e le madri, che piantano appena possono un albero e gli danno il nome del figlio e parlano con lui), quel giorno di nove anni fa, credevano che presto avrebbero avuto una tomba su cui pregare: una tomba non è una creatura, certamente, ma è almeno una specie di piccola casa nella quale c’è un corpo umano, un corpo che fu portato nel ventre per nove mesi o accolto gioiosamente nella propria carne come un tenero invasore.
Sono passati nove interminabili anni, le donne dei desaparecidos la verità non l’hanno avuta, le tombe sono rimaste vuote, i corpi dei loro uomini calcinati in qualche cava o discarica o gettati da qualche aereo militare nell’oceano, la pancia squartata con un coltello da macellaio.
A venticinque anni dal golpe le donne dei desaparecidos (quelle che sono ancora vive) non hanno avuto la verità ma adesso hanno Pinochet, lo tengono nella gabbia dei loro pensieri, prigioniero e umiliato. L’uomo che si vantava di ignorare cosa fossero i diritti umani, adesso ne tuona o miagola l’importanza.
Caro Signor Capitano Generale
Signor Capitano Generale, l’Europa, sei diversi stati, e forse adesso anche gli Stati Uniti e l’Argentina, dicono che Lei è un delinquente, indagano, parlano di processi, favorisca rimanere in clinica, poi si vedrà. E adesso, sorridono le donne dei desaparecidos, il Signor Capitano Generale, il dittatore che si è blindato una costituzione tutta sua, il padrone delle Forze armate e del Senato, quello che bofonchiava un ordine con la sua grigia voce da despota e subito partiva la colonna del generale Arellano Sanchez (migliaia di chilometri e decine di morti) e si metteva al lavoro l’Operazione Cobra (ente di mutuo soccorso fra dittatori latino-americani, società per azioni specializzata in massacri) e saltavano in aria, a poche centinaia di metri dalla Casa Bianca, i suoi nemici o si trovava un fascista, come a Roma, che gli sfasciasse il cranio a martellate; questo innamorato di bandiere insanguinate del sangue di nemici disarmati, sta in un luogo dove finiscono i VIP per demenza senile o per etilismo acuto. Ridono, adesso, del loro raro sorriso, le donne dei desaparecidos. Ogni giorno di permanenza di Pinochet nell’ospedale psichiatrico in cui si è rifugiato demolisce il suo prestigio di carceriere onnipotente. La sua inonoranda vecchiaia ha qualcosa di osceno mentre invoca Dio (chissà quale) e afferma: “Io sono in pace con me stesso e con il popolo cileno”.
Sadico comandante di sadici
Non lo metteranno in carcere, né in Cile né altrove, ne sono convinto. È in affari (di armamenti, si capisce) ed è difficile che i miliardari vadano in galera. Poi il governo cileno, la democrazia dimidiata dalla costituzione che Pinochet si è blindato, è costretto a difenderlo. Così il vecchio senza pietà tornerà in Cile a impedire, come sempre, la giustizia; e ci sarà molta gente dei quartieri alti che lo applaudirà come un martire e generali che gli faranno una gran festa. Ma non sarà più lo stesso: tutta l’Europa (e forse gli Stati Uniti e forse l’Argentina) hanno trasformato i suoi inni in una povera ballata di carnefice stanco, di boia in pensione, e anche peggio: di sadico comandante di sadici. Ha perso, per sempre, la faccia. Sono pronto a scommettere che morirà presto.
Che bellissimo autunno: i carnefici cominciano ad avere paura. L’arresto di Pinochet è l’apice di un anno in cui la giustizia è sembrata avanzare a passi fermi. In marzo sono stati condannati in Italia i nazisti Priebke e Haas; in giugno in Argentina è stato posto agli arresti domiciliari il generale Videla, leader dei golpisti del 1976, che sarà processato per la terribile storia dei bambini desaparecidos: sottratti, subito dopo la nascita, alle madri detenute e consegnati alle famiglie di militari, mentre le donne venivano uccise.
In Guatemala e in Sudafrica le Commissioni di investigazione sui crimini contro l’umanità hanno ultimato il proprio lavoro, adesso tocca alla magistratura. L’assassinio del vescovo Girardi a Città del Guatemala è la prova non soltanto del coraggio degli indagatori ma anche della turpitudine e della paura dei carnefici. In luglio, a Roma, è nata la Corte Penale Internazionale. Appena un nome, per il momento, poiché il relativo trattato non è stato ancora ratificato da sessanta nazioni e gli USA imperiali e l’Israele che pure è nato dalla Shoah e da Norimberga hanno preferito sinora proteggere, con il loro rifiuto alla ratifica, i criminali che usano le loro bandiere come paraventi alle camere della tortura; ma pur sempre un passo avanti in direzione della giustizia.
Lo schermo della sovranità statale o della cosiddetta obbedienza agli ordini non protegge più i criminali. Comincia a scricchiolare su tutta la Terra l’impunità che assicurava ai carnefici una vita tranquilla e perciò stesso sollecitava non pochi individui a seguirne l’esempio: violare i diritti umani comincia, se Dio vuole, ad essere rischioso e perciò meno allettante.
Il trionfo dei vincitori
il silenzio dei vinti
Dal manicomio dei VIP Pinochet minaccia: “In Cile come altrove, la recriminazione è nemica della riconciliazione”. Che un uomo che detta sentenze come questa abbia goduto la simpatia di non poche autorità ecclesiastiche (tanto per non fare nomi: del cardinale Sodano) risulta stupefacente. La riconciliazione come la vede Pinochet è il trionfo dei vincitori più il silenzio dei vinti. Niente a che vedere con il vangelo, neppure con i manuali di morale cattolica che pure dovrebbero essere noti ai monsignori e che prevedono, perché vi sia vera riconciliazione, il pentimento dei violenti e il risarcimento degli offesi.
Una “riconciliazione” del genere che pretende Pinochet è quella che ha tenuto il Cile inchiodato al passato e sepolta la verità sui delitti della dittatura. Una specie di orrenda glaciazione poiché senza giustizia non si possono elaborare lutti come quelli che Pinochet ha seminato, non si possono recuperare sanità psichiche violate dalle torture che Pinochet ha fatto infliggere a tutti i suoi avversari, non si può avere fiducia nella democrazia; anzi, non c’è vera democrazia.
Ci sarà qualcuno che leverà la voce contro l’ideologia di Pinochet? Parleranno i vescovi cileni? O prevarrà, ancora una volta, la prudenza mondana, l’orrenda Chiesa delle mediazioni che preferisce una pace che non è tale alla giustizia finalmente donata ai poveri?