Ultima propaggine gerarchica o germoglio di comunione umana? (cristianità o postmodernità?)

di Demarchi Enzo

I.

Sul quotidiano La Repubblica, 8 maggio 1999, sotto il titolo provocatorio Noi cattolici siamo gli unici veri italiani, mi hanno colpito alcune affermazioni di un personaggio religioso di spicco (per non dire “eminente”). Stando all’articolista, tale personaggio (i testi virgolettati sarebbero appunto parole sue) sosterrebbe che tocca ai cattolici “rammentare a tutti che il cattolicesimo è la “religione storica” della nazione italiana” e farne tutelare i diritti. Lo Stato italiano è certamente laico ma il popolo, la sua cultura e la sua storia è sicuramente cristiano, anzi cattolico, quindi lo Stato deve concedere ai cattolici e alla Chiesa il primato che loro spetta. L’immigrato che viene in Italia da “culture lontane” deve sapere di essere ospite in una casa che ha già una sua “architettura”, quella cattolica: la riconosca, non pretenda di avere lo stesso trattamento di chi rappresenta “l’anima antica e sempre viva del popolo italiano”. Lo Stato non deve essere imparziale “in nome della parità di tutti i convincimenti e di tutte le fedi”, perché l’Italia è stata cattolicissima nella storia e “ciò che è avvenuto non si può mutare. Sarebbe un attentato all’identità storica del nostro popolo”. I “nuovi arrivati” di altre religioni non saranno mai italiani perché “nessuno può essere culturalmente italiano se non fa spazio nel suo mondo interiore, almeno culturalmente, a questa precipua ragione della nostra identità” che è la fede cattolica.
Queste affermazioni mi hanno trasportato di colpo nel mondo della mia infanzia-adolescenza, in un paese di campagna (un villaggio-parrocchia di “cristianità”) 50-60 anni fa, clima di guerra 1940-45 e immediato ante e dopoguerra. Ho sentito il fascino di quei ricordi, evocatori di un vissuto nel cui mare mi è dolce naufragare. Condenserò invece e, congelerò ricordi vivi in poche scarne osservazioni.

  • La parrocchia era a quel tempo realmente il centro della vita sociale del paese. Più ancora che “fontana del villaggio” (Giovanni XXIII), essa era l’espressione della omogeneità cultural-religiosa di un popolo. Quei chiesoni visibili a chilometri di distanza con la loro mole e i campanili aguzzi sovrastanti l’intero abitato, non stonavano affatto: erano il segno ben riconoscibile e riconosciuto del luogo della comunità paesana, fatta di un popolo di poveri (popolo contadino e piccolo artigianale). Anche chi non era praticante, chi non ci credeva (certi “borghesi”) era culturalmente religioso; il contrario di ciò che sembra accadere oggi, quando anche chi ci crede non sa più come e in che cosa essere cristiano, non è più culturalmente religioso.
  • La vita in questo mondo aveva un impianto gerarchico. Il fondamento della “civiltà cristiana” stava in un ordine “sacro” che viene dall’alto. Era un ordine fondato sul potere assoluto di Dio, che governa il mondo con la società perfetta che è la Chiesa (papa, vescovo, prete) e quella imperfetta che è la società civile. Si diceva e ripeteva spesso: preti e carabinieri tengono il mondo in piedi. Una Chiesa in “regime di cristianità” supponeva una fede cristiana diventata cultura nella base popolare, una specie di acritica unione organica tra religione e vita sociale. Così per esempio, nel dopoguerra, di fronte alle prove elettorali decisive della Repubblica pareva a molti normale che l’Azione Cattolica (e la Gerarchia dietro di essa) promuovesse dei “comitati civici” in appoggio a un partito (DC) ritenuto incarnare politicamente la “civiltà cristiana” da difendere contro la minaccia marxista-comunista (anche se, paradossalmente, a gremire la chiesa al mio paese erano i “comunisti” che pensavano a questo mondo rifugiandosi nel “partito dei poveri”, mentre la Chiesa li rassicurava sull’altro). La situazione veniva vissuta come scontro frontale di civiltà. Possono sembrare cose lontane di secoli, e sono di ieri. Come dimenticare la “crociata” del gesuita p. Lombardi, con quelle predicazioni che attiravano folle di “fedeli” per lanciare il messaggio di una possibile rigenerazione dell’intera società sotto il segno della civiltà cristiana? Da tali realtà sento una distanza non dico “secolare” (si può andare avanti per secoli alla stessa maniera), ma “epocale”: vivo oggi in un’altra epoca.

II.

Torno alle affermazioni del personaggio religioso citato in apertura per chiedermi se la “cristianità”, descritta e difesa con tanto ardore, non abbia avuto – pur con tutti i suoi indiscutibili meriti, valori, realizzazioni storicoculturali – il difetto di ignorare la distinzione fondamentale che esiste tra fede e sua inculturazione. Tra fede e cultura non c’è un rapporto lineare da causa a effetto. In ogni cultura la fede rimane inalienabilmente fede della persona, capace e promotrice di incontro, di “prossimità”, con ogni persona di qualsiasi altra cultura, anche “lontana”. Una cultura cristiana non si tramanda automaticamente di generazione in generazione, a base di catechismi e di “dottrine”. Tale cultura rischia sempre di rimanere guscio vuoto, senza perla, senza “fede”. Una cultura “per cui non possiamo non dirci cristiani” (B. Croce) non è ancora fede cristiana. Anche l’antropologa Ida Magli, non credente, si riconosce partecipe della cultura cristiana e vorrebbe difendere l’Italia dall’invasione della cultura islamica (cfr. Resto del Carlino, 18/8/1999, p.1), naturalmente inferiore a quella cristiana.
Una cultura che si identifica tout court con la fede cristiana diventa uno degli integralismi più pericolosi (è necessario ricordare ciò ch’è successo col fascismo in Italia, in Croazia?,). Quanto poi alla inculturazione della fede, sarebbe opportuno ricordare che la fede cristiana lotta sempre per inculturarsi e deculturarsi al tempo stesso. La sua è la legge del seme e del fermento, che penetrano nel terreno e nella pasta per agire creativamente in profondità. Per diventare cultura cristiana autentica – cultura in cui s’è incarnata una fede personale – storia e tradizioni cristiane hanno bisogno della libera e gratuita (frutto di grazia) ratifica del singolo. Il Dio di Gesù Cristo batte alla porta e aspetta. Tutto ciò che ci è dato di vivere va accolto e conquistato, ri-creato nella libertà. E’ ormai da tre secoli che la cultura della modernità catechizza il mondo col verbo della libertà (sia pure riducendolo spesso a un “canto di sirene” che fa della libertà l’ideologia dell’individuo). Non sarà che in tutto il plurisecolare periodo della cristianità non è stata presa sul serio, ed è poi venuta vistosamente a mancare, la libera decisione che è l’anima d’ogni autentica avventura umana? In particolare quella del prodigo (“la più bella avventura”, diceva don Mazzolari) che è l’avventura della fede cristiana: la libertà vissuta come dono-conquista dell’incontro con l’altro, scoprendo in ogni altro lo Spirito da cui siamo abitati (Spirito del Padre) e che ci chiama all’esodo dell’incontro e della comunione.

III.

Queste premesse (pur in forma troppo concisa in rapporto al loro peso, e troppo estesa in rapporto allo spazio di questo articolo) erano necessarie per venire al presente e osare il sogno del futuro. Non gli specialisti dell’organizzazione gerarchica o delle nuove formule di conquista apostolica, ma la voce profetica di umili cristiani itineranti mi incoraggia a questo sogno. Saranno dunque le parole di Giuseppe Stoppiglia, un amico che ci ha confidato la sua comunione umana (cristiana!) di homo viator (Diario di un viandante, Macondo-Libri, Edizioni Lavoro, Roma 1999), e quelle di un testimone scomodo del Vangelo, mons. Jacques Gaillot (il vescovo di Èvreux, in Francia, privato della diocesi per le sue posizioni su celibato sacerdotale, sacerdozio delle donne e uso dei profilattici per i sieropositivi) a tracciare un sentiero di cristiana invenzione:
“Mi chiedo se almeno parte dell’indifferenza verso la Chiesa non sia motivata dal fatto che i cristiani non hanno saputo, in questi ultimi decenni, far nascere autentiche comunità che siano spazio di libertà, di franchezza evangelica e di confronto, dove il dibattito e la critica evangelica siano accolte come dono, non come minaccia; dove l’intelligenza e la creatività non siano mortificate ma valorizzate, dove l’amore fraterno, pur negli inevitabili conflitti, assicuri un clima di fiducia, di apertura, di confidenza” (o.c., p.160, corsivi miei). E ancora: “Il tempo in cui le religioni portavano a rifugiarsi nel loro splendido isolamento è finito. Dialogo, sì, ma distinguendo tra inter- e intra-religioso. Il dialogo inter-religioso mette faccia a faccia religioni già costruite e riguarda temi di dottrina o di disciplina. Il dialogo intra-religioso non comincia con la dottrina o la teologia, ma inizia dall’interiorità, dall’intra. Vuol dire che, se io non scopro in me il luogo in cui il buddista, il musulmano, l’ebreo, l’ateo, l’altro può avere un posto nel mio cuore, nella mia intelligenza, nella mia vita, non potrò mai entrare in vero dialogo con lui. Se arrivo ad abbracciarti, lì ti comprendo” (Giuseppe Stoppiglia, o.c., p.153-54).
E mons. Gaillot, intervistato: “Un cristiano isolato è un cristiano in pericolo. E ci sono molti cristiani isolati. Per questo le piccole comunità sono così importanti. Ma per funzionare devono reggersi su quattro colonne: amicizia, preghiera, formazione e impegno nella società. I cristiani devono pregare insieme e riflettere sulla parola di Dio. Devono formarsi e trovare un luogo dove la loro fede possa respirare e dove possano esprimere anche i loro dubbi [come i due di Emmaus, lungo la strada]. Devono impegnarsi nella società, perché i cristiani e le cristiane non sono fatti per restare tra di loro”. E ancora: “Cerco di vivere ogni giorno come Abramo. Vado avanti libero e non so dove questo mi porterà. Sono contento e grato di essere legato a così tante persone . Io vivo fuori dalle mura. Bisogna star fuori per vedere il sole, il sole della risurrezione. Non ho progetti. Dio mi mostrerà la strada” (da Adista, 2 agosto 1999, p.10-11, corsivi miei).
Sono queste per me voci liberanti, centrano in pieno l’esperienza di oggi. Quella che si chiamava “la cristianità” non c’è più. Chi vede mai un “popolo cristiano” oggi, con tutta quella modernizzazione priva di ogni passione, di ogni ideale? I poveri ci sono, certo, ma sono gli ultimi, quelli che non fanno storia, per definizione esclusi dalla storia. La storia è della gente che conta. E’ bene, è male che non ci sia più la “cristianità”? Com’è avvenuto questo? Perché?
Non lo so. So che non c’è più “cristianità”. Ci sono però i cristiani, ci sono le persone umane, come prima, come sempre. Persone che desiderano comunità autentiche nel deserto del mondo. La parrocchia deve diventare “comunità di comunità”, come dicevano i latinoamericani a Puebla nel 1979! Ma quanto coraggio occorre per formare e vivere comunità autentiche! Saremo sempre grati alle parrocchie per la loro opera di assistenza sociale (bambini, adolescenti, giovani, anziani,); sappiamo con quanta dedizione la parrocchia può funzionare da “station service” per i vari bisogni religiosi delle persone, o celebrare i riti di passaggio della vita umana sotto il segno del “sacro” . Ma la parrocchia “comunità autentica” è qualcosa di diverso, che può e deve sì supportare tutte queste iniziative, ma non si confonde con esse, non è la loro somma. Penso a persone che, riconoscendosi “povere e sole” (questa è la definizione dell’essere umano nella preghiera biblica dei salmi), appartenenti alla comune grandezza-miseria umana, scoprono la gioia di essere amate dal Dio di Gesù Cristo e così il coraggio di creare comunità in Lui. Comunità laicali, dove si vive, si prega, si agisce “non benché laici, ma perché laici” (cf. G. Zizola su Rocca, n.16/17-’99, p.44); comunità di itineranti per le vie del mondo (parrocchia da “paroikia”: pellegrinaggio-soggiorno in paese straniero, altro che fobia per gli extracomunitari!); comunità dove l’annuncio del Regno si allea con l’ascolto che ne discerne le tracce ovunque, e la missione è fautrice di vero incontro umano nella libertà e nel dialogo.