Tra barbarie e civiltà
Abbiamo dimenticato Sarajevo
«Il male, per radicale che sia,
non è così profondo come la bontà».
(Paul Ricoeur)
Griot, il cantastorie
Il mio paese è un corpo vivo. A ogni angolo una presenza, un ricordo, un volto. La piazza, ogni via, ha un’orma di vita. Ogni metro è segnato da un passo.
Fausta o infausta, umana o bellica, la storia è presente. I trapassati continuano a passare silenziosi nelle strade. Sotto le nuove case riconosco i prati. Nel centro restaurato arrivano i nuovi cittadini. Piano piano anche per loro, non senza fatica, si fanno vive le pietre.
Puoi traslocare mille volte, ma nei sogni porti con te, abiti sempre, la casa natale. È piccola come era allora, ed è sempre più grande. Continui a incontrarvi le generazioni passate, insieme ai nuovi nati. Lo spazio nostro interiore è grande, è una grande, unica città.
A volte vedo luoghi dove fui una volta, di passaggio, e non ne ricordo più il nome, né dove si trovano. Anche quello è il mio paese.
Nella cultura africana, a sud del Sahara, la figura del griot occupa un posto di rilievo nei riguardi della tradizione orale. Il griot è il menestrello, il cantastorie, il depositario della memoria storica dell’intero clan e ha il compito di trasmettere, con la narrazione, l’identità di un popolo e tramandarla attraverso le generazioni. Le parole dei griots vengono tramandate senza alterazioni e ripetute senza modifiche da padre in figlio. Ora la narrazione rischia di interrompersi, ma ci sono griots che rimangono fedeli alla loro storia, anche nella solitudine.
Un giorno Deliba, griot del grande popolo Mandinga, nel suo pellegrinare giunse al villaggio di Wagadu. Gli anziani lo accolsero con reverenza; gli offrirono acqua per lavarsi, cibo per nutrirsi e una capanna per riposare. Verso il tramonto, tutto il villaggio si radunò sotto il grande baobab e il griot cominciò a raccontare l’epopea di quel villaggio quasi sconosciuto. Alternava le parole al canto, accompagnato dall’inseparabile balafon e si esibiva in danze rituali.
La parola fluiva e i bambini spalancavano gli occhi dalla meraviglia, i giovani commentavano con allegria gli avvenimenti epici, gli anziani annuivano di fronte alle sentenze e le donne restavano in silenzio, gustando l’onda dei suoni e dei gesti.
Venne sera e poi mattina, e il griot continuava il suo racconto. Per alcuni giorni il villaggio sembrava inchiodato davanti al griot, ma poco alla volta cominciarono le defezioni.
C’erano cose più importanti da seguire: il lavoro, il mercato, la scuola… e le novità che arrivavano dalla città! La gente intorno al griot si ridusse sempre più, finché il cantastorie rimase solo. Lui, però, continuava a parlare, cantare e danzare, come se tutto il villaggio stesse davanti a lui. La gente lo prese per matto e rideva.
Un giorno un bambino, passandogli accanto, lo interrogò: «Perché continui a parlare quando nessuno ti ascolta?». Il griot si interruppe, lo guardò con simpatia e rispose lentamente: «Sono venuto e ho cominciato a parlare perché speravo di cambiare il villaggio scoprendo la sua anima, ora continuo a parlare perché il villaggio non cambi me» [Dani Kouyté, Burkina Faso].
Bosnia, mito e profezia
Spesso il passato lascia ferite così profonde che impediscono di vivere il presente, trasformando ogni problema, contrasto, difficoltà in una lotta per la sopravvivenza. Ciò avviene sia per gli individui che per le società. È questo il caso della Bosnia. La Bosnia, dolce e terribile, mai dimenticata. Un mito, forse.
A chi importa, ormai, questo brandello esausto d’Europa? A che serve cercare in una società devastata e assistita, che brancola cercando nuove forme di convivenza? Serve! Perché i Balcani, come l’Algeria o il Medio Oriente, altro non sono che il nostro specchio. Come furono uno straordinario laboratorio di incubazione dei nostri conflitti, oggi diventano lo spazio per sperimentare, in anticipo, il modo per porvi rimedio.
L’estate scorsa, in occasione del camposcuola internazionale dei giovani in Bosnia (organizzato dal sindacato e da Macondo), ho voluto rapportarmi con quel territorio dei Balcani in modo nuovo, senza ombre di superiorità coloniale. Volevo fare un viaggio diverso, che riassumesse i rischi e le ricchezze dell’incontro fra Occidente e Oriente.
Durante la guerra, mi chiedevo in continuazione: ammazzano bosniaci come agnelli inermi e l’Onu sta a guardare.
Come mai nessuno reagisce? eppure tutto grida vendetta.
Non capivo quella remissività, quel leggere la guerra come destino. Possibile che a nessuno venisse in mente di farcela pagare? Ora sono arrivati gli attentati. Il terrorismo islamico dilaga e incendia il Medio Oriente. Un terrorismo che trascina l’Iraq al suicidio, attraverso il suicidio dei suoi kamikaze.
Il cerchio maledetto si chiude. Nel cielo si rompe il settimo sigillo, come nell’Apocalisse di Giovanni. Oggi si compie quello che era già iniziato. Già allora si volle squartare una Gerusalemme, il punto d’incontro di tre monoteismi.
A Sarajevo furono violentemente attaccati i simboli della città.
Se ora abbiamo già dimenticato l’Iraq, figurarsi la Bosnia, ma purtroppo, ciò che ci fa dimenticare Sarajevo, è esattamente ciò che ci impedisce di capire il Medio Oriente.
Quella guerra fu il primo segno premonitore della grande geopolitica del caos che sarebbe seguita al crollo del muro di Berlino e alla fine della spartizione del mondo in due blocchi.
Sarajevo, la vittoria di Milosevic
Una sera, durante questo mio ultimo viaggio in Bosnia, camminavo sulle montagne attorno a Sarajevo. Il cielo era di un color azzurro intenso, spazzato da un vento umido.
Ebbene, in quel clima, in quel contesto particolare e carico di significati, mi sono scoperto a pensare che solo il nomade vive in pace col sole e le sorgenti, dunque capisce Dio, l’Essenza.
Cristianesimo, ebraismo e islam sono monoteismi nati proprio dalla purezza di questo orizzonte nomade. Nella stessa terra, il vicino Oriente.
Queste grandi religioni rischiano di finire rovinate proprio dai sedentari, dalle loro gerarchie totalitarie, dai loro muri, dalle loro ossessive divisioni, dalle loro torri di Babele e le porteranno a scontrarsi.
E oggi tutto questo è chiaro: lo scontro è stato aperto.
Dopo l’11 settembre il nemico, ci dicono, è l’islam. Cristiani ed ebrei prendono le armi contro il pericolo mussulmano, ma quindici anni fa, quando tutto cominciò, proprio a Sarajevo, tutti, anche i cristiani e i mussulmani, si dichiaravano simili agli ebrei nel comunicare al mondo la loro condizione di perseguitati. Gli ebrei di Sarajevo si schierarono, senza esitare, con i mussulmani e i cristiani contro i banditi che li bombardavano dalle colline. Pochi capirono che lo scontro era fra barbarie e civiltà umana e non fra religioni o etnie.
Purtroppo, però, vinse la lettura più facile. Sarajevo era un nodo troppo complesso per essere comprensibile a questo mondo globalizzato, che banalizza, semplifica e riduce tutto a stereotipi e slogan.
Le conseguenze le vediamo. In Europa le idee di Milosevic hanno vinto. L’islam è diventato il pericolo. I posti dove convivono più religioni sono entità demoniache, destinate all’odio e di fronte a tutto questo gli intellettuali tacciono, la parola solidarietà è pronunciata con sempre maggiore timidezza. L’equivalenza immigrazione-delinquenza è ormai consolidata, granitica. Non cede nemmeno di fronte ai bambini.
Pietà è morta
Mi chiedo in quale deserto di valori siamo caduti. Talvolta perdo la calma, alzo la voce.
Mi accorgo, poi, che non grido contro il mio interlocutore, che spesso è una brava persona, un onesto lavoratore, ma contro me stesso, contro la mia incapacità di far valere le idee in cui credo.
Grido per non ammettere che abbiamo perso la pietà.
Quando siamo di fronte all’immigrato, ci dimentichiamo la politica e pensiamo etnicamente. Le vittime diventano i colpevoli, i mercanti di uomini sono dimenticati o assolti. Tutto si ribalta. Gli operai urlano contro gli immigrati, i padroni chiedono di farli arrivare. È il segno che l’equivalenza tra stranieri e delinquenti viene anche, purtroppo, da un grande vuoto di informazione.
Perché nessuno spiega ad alta voce che l’allarme immigrati è sponsorizzato proprio da quelli che si servono dei clandestini, cioè dalle forze dell’economia debole, che regge solo schiacciando il costo del lavoro? La Jugoslavia è il luogo al mondo che meglio e per primo rivela come lo scontro fra globale e locale, se non ammorbidito dalla costruzione di legami sociali difensivi, non si limita a generare solo smarrimento e ansie di nuovi muri, ma fa di peggio, devasta il ventre profondo della comunità.
Ripartire e fare società
E qui arriva la sorpresa. Questo stesso luogo maledetto diventa, dopo la guerra, il terreno per ripartire da zero, per re-inventare la politica, le appartenenze e la coscienza del luogo. Costruire, cioè, strade alternative per fare società.
Ho la sensazione chiara che i giovani, i volontari e anche qualche robusto sindacalista dal cuore puro, abbiano capito questo. Quanta sapienza c’è nella loro esperienza! Hanno capito, cioè, prima degli altri, che il collasso del globale e l’implosione del locale fanno parte dello stesso gioco e restano attaccati a quel mondo fra il Danubio e il Mediterraneo perché sanno che i Balcani non sono i Balcani, ma una metafora della polveriera mondiale.
Il volontario, l’utile idiota, quello che va in Bosnia per ricostruire le comunità maledette, sì, proprio lui, può indicare all’Occidente, alla società dell’individualismo compiuto, della solitudine blindata e del capitalismo personale, la strada di una ricostruzione dal basso di reti solidali.
Oggi la politica, con il suo linguaggio propagandistico, scende dall’alto per parlare all’uomo solo, ma la politica, come scrive Massimo Cacciari, deve essere proprio l’opposto: deve dire all’uomo che «non è solo».
I giovani che vanno in Bosnia, lanciano un segnale preciso: la politica deve ripartire dal basso, dai luoghi, dal territorio.
Ci vogliono dire che occorre lavorare sulle relazioni micro, fare azione di comunità e ricostruire appartenenze.
Lo chiedono anche le nuove élites, quelle nate appunto sul territorio: povere di finanza, dimenticate dalla politica, ma ricchissime di idee, di intelligenza e di valori.
Sarà una battaglia dura? Certamente! In questi quindici anni siamo caduti talmente in basso che se qualcuno vuol resistere, difendendo i deboli, viene subito schedato come uno che «resiste al cambiamento». Perfino resistenza, quindi, è diventata una parola reazionaria.
Pove del Grappa, novembre 2006