Scavando sotto il selciato. Oltre la seduzione dei suoni, nell’interiorità della parola
“Non devo chiedere all’altro di parlare più forte.
Devo aumentare il mio silenzio”.
(anonimo)
“La scuola deve tendere tutta nell’attesa
di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dirà:
Povera vecchia, non ti intendi di nulla.
E la scuola risponderà con la rinuncia a conoscere
i segreti del suo figliolo,
felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle”.
(Don Milani)
Un abbraccio senza amore
La finestra dalla quale guardo Mestre, in questo scorcio di settembre, mi fa rimpiangere l finestre senza vetri di Rio Branco che inquadravano l’infinito. È una mattinata grigia. Una lampada fortissima illumina costantemente una pianta al di qua dei vetri e simboleggia il disperato tentativo di mantenere un po’ di vita. Il rincorrere la vita per trattenerla, incarnato nella pianta immobilizzata sotto la luce violenta, mi fa venire in mente quelli che ingabbiano il canto di un passero perché accompagni la loro vita deserta; è forse perché non l’hanno dentro, il canto?
Questa strada, soffocata dai rumori della città, a dieci minuti dal centro, è senza canto, senza bellezza, senza natura. La solitudine della montagna mi ha fatto sentire austero, mai triste. Qua non c’è natura, salvo questa squallida pianticella violata dalla luce che la immobilizza nell’abbraccio senza amore.
Passi sulla neve, nella stanza
So che questa strada è lunghissima ed incrocia altre vie giù fino alla stazione, dove la vita si ispessisce e mi fa pensare ai sentieri del mio paese nella Valle dove sono nato, nella stagione in cui la neve felpava i passi dei passanti e li introduceva nella mia stanza. Nello stesso tempo i passi si facevano meno sonanti, più interiori, più raccolti, nessuno si perdeva. La neve faceva entrare passi desolati, come se dei passanti estranei avessero bussato alla porta per chiedere il calore della casa. La scoperta degli altri ha forse un principio straziato.
A tutto questo ripenso nella mattina d’ozio. Il tempo si ferma per me, nella città più affannata e caotica del Veneto. Sì, ho conosciuto da bambino la solitudine dell’uomo – ora lo ricordo; mi fu trasmessa da questi passi notturni sulla neve, quando le parole umane si ritiravano dalle strade per accendersi attorno al caminetto delle nostre vecchie case. Come avrei voluto che non terminasse la veglia attorno al fuoco; noi si litigava per difendere il posto più vicino alla fiamma; e poi durava a lungo la lotta contro il sonno caricato progressivamente dal calore del fuoco, con il grosso libro rilegato in rosso “Senza famiglia” tenuto a forza, perché al suo cadere dalle mie mani, la mia giornata sarebbe terminata. La lotta disperata finiva sempre in una sconfitta, e mi trovavo a letto nella stanza fredda a ricevere nel cuore i passi che mi chiedevano accoglienza.
Sguardi erranti sul selciato
Li ripenso oggi questi passi, osservando la città al di qua dei vetri, e vedo volti che guardano lungamente, fissamente la strada. Mi pare che tutti quei volti al di là dei vetri, esprimano la mia stessa curiosità e la mia stessa paura di guardare il fondo della strada. Condivido con i volti, che appaiono dietro i vetri, la decisione di non guardare giù in quel fondo che ci manda voci alterate. Mi rassegno a questa comunicazione insolita, propria delle giornate lunghissime delle corsie d’ospedale.
Poveri ed impoveriti
Nell’America Latina ho visto i poveri, qua m’incontro con gli “impoveriti”. I poveri han dovuto trovare la forza di vivere, che, per abitudine, si è fatta semplice, normale, non tradisce lo sforzo.
Nessun ricco, nessun intellettuale, che chiama fatalismo la capacità di assumere la fatica senza tensioni tragiche e senza declamazioni, sarebbe capace di pagare il costo di un loro giorno di vita. Infatti questi impoveriti che sembrano maschere di Brecht, non hanno ancora scoperto il segreto di vivere da poveri. E sfuggono alla vita con tutte le evasioni possibili, nello scenario di queste case che potranno sopravvivere al tempo. La vita verde ed i fiori sono imprigionati al di là dei vetri, e non possono abbracciare con felicità i muri in rovina, come invece abbracciano le facciate di fango delle catapecchie in America Latina.
La gioia di non sapersi felice
Una vecchia prostituta mi manda da sotto il trucco un saluto di accoglienza. È il primo invito ad uscire dal quello stupore in cui mi ha legato la strana contemplazione del mattino. Mi sono prestato tutta la mattina, dietro i vetri della finestra a questo mimo della convivenza, ed ora è come se mi svegliassi con il richiamo di un cuore lontano, nascosto dietro la maschera della consuetudine.
Questa donna, che mi saluta con cordialità, non so per quale miracolo ha scoperto la giustizia di non essere bella, e la gioia di non sapersi felice. Il suo saluto festoso sblocca una mia disponibilità raggelata nella mattina solitaria. Forse questa vecchia dai capelli biondissimi, ha scoperto quel carisma che Gesù recupera nel terreno torbido della prostituzione, perché nella gelida accoglienza di Simone il fariseo, si sente accolto da lei. Mi dà la gioia che non è sua, e l’accoglienza che non ha mai ricevuto. Certamente Cristo continuerà a preferire alla chiesa lucida e riscaldata, dove è stato sequestrato, questi antri dove la speranza è clandestina e sovversiva
Gli eroi di oggi sono… uomini
La fine dei significati, il controllo dei saperi e l’omologazione collettiva ci spingono a batterci per un modello di appropriazione delle parole sensate contro la banalizzazione e i piaceri del consumo scriteriato. Sono convinto che essere uomini oggi sia più difficile che essere eroi. Nella trasformazione a volte improvvisa, ma sempre veloce della nostra società, credo sia in gioco non qualcosa di marginale, ma il bene fondamentale: la coscienza umana, la sua capacità di essere libera dalle manipolazioni, fossero pure le manipolazioni della religione.
Lo spirito critico e la scuola
Obiettivo prioritario è dunque lo sviluppo dello spirito critico e la capacità di ragionare con la propria testa. Non c’è un’alternativa diversa. O la scuola insegna ad essere liberi, anche liberi di rivoltarsi, o è uno strumento di potere e nemica dei poveri. Nel rigurgito integralista di questi anni, non va solamente suggerito, ma gridato il senso dell’intransigenza evangelica, che scarta la potenza come veicolo per la fede perché rinasca la Parola anzitutto in chi non ce l’ha, come Parola di liberazione.
Le speranze facili del consumo
Liberare i poveri dalla passività, restituirli alla loro coscienza di uomini, è già Vangelo. Se perciò vogliamo rifare i ponti tra passato e futuro, garantire un senso alla storia, tutto questo non avverrà se la parola dell’uomo è stata spenta, tramortita dal consumo totale. Troppo spesso la speranza messianica si trasforma oggi in una scienza, in una metodologia pastorale, e si arricchisce giorno per giorno delle tecniche ausiliarie, ma intrinsecamente incapace di raggiungere i poveri, inadatta a quelli che fanno la storia. La speranza si nasconde nei tuguri o nei deserti, e sfuggirà sempre i luoghi dove si fa troppo visibile e troppo facile… “vedere quello che speriamo, non è più sperare. Come si potrebbe sperare quello che si vede? Se speriamo cose che non si vedono, dobbiamo sperarle con pazienza,” (Rom. 8, 24-25).
Tempo libero, e… vuoto
Quanti credono nella cultura come alternativa festosa?
Certamente non molti, e su questo punto si insiste poco: sulla necessità della cultura per il tempo libero.
“Più una persona è colta e meno denaro le serve per fare una vacanza o vivere una giornata felice. Meno è colta, più ha bisogno di scialacquare, di spendere, ha bisogno di più giochi di artificio, di più riti, perché il tentativo di arredare un vuoto non è semplice” (F. Savater).
L’interno della nostra coscienza, anche se siamo piccolissimi, è talmente vasto, infinito, che per quanta roba ci cacciamo dentro non riusciamo mai a stiparlo.
Di conseguenza, conviene creare un fermento, perché se tentiamo di riempirlo di cose esterne non ne troveremo mai a sufficienza, perché è un pozzo senza fondo. In un mondo in cui c’è sempre più gente e più tempo, è necessario creare spazi interiori per poterci allontanare dagli altri. Una delle ragioni per cui si fa uso di droga, sta nel fatto che sostituisce il pensiero di chi non è capace di pensare. Alcune persone per sopportare la contiguità con il prossimo devono avere una zona interiore dove rifugiarsi. E se non è quel fermento a dargliela, sarà la chimica o qualcos’altro, perché ne hanno bisogno.
Il fermento e la parola
C’è una lettera di don Milani, fra le moltissime del suo epistolario, che rivela: “Non si può essere educatori, se non si ha una fede”. E ad una maestra, poi, che gli diceva di essere inquieta nel suo cammino di fede, risponde: “Quando avrai perso la testa per questi pochi ragazzi, al fondo del tuo impegno di liberazione dalla parola naturalmente troverai Dio. Cioè, troverai la Parola che si è fatta carne”.
Ogni volta che accosto anche solo qualche pagina di Don Milani, ne resto preso: polemico fino al fastidio, paradossale, classista, clericale, incapace di mediare e di rendersi conto delle situazioni. Certo lontano dal mio temperamento e dal linguaggio nel quale tento di esprimermi; a trent’anni dalla morte richiama in me ideali attualissimi e mi spinge a battaglie che parevano ovattate nella storia.
Vocaboli devianti
Sconfitto come ogni profeta, sfuggente a qualunque gabbia ideologica, Don Milani ancora oggi afferma, con un candore al quale non siamo abituati, che il momento supremo della liberazione è nell’educazione. È la parola a liberare l’uomo, ma bisogna che sia una parola liberata, un segno del senso, e non una parola che mistifica, imbroglia, devia o distrae.
“Il “Maestro” deve essere, per quanto può, profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo confusamente”.
Vorrei aggiungere che non basta più, oggi, dare la parola ai poveri. Le trecento parole che Don Milani invocava per loro, sono diventate duemila, e in più lingue, ma sono parole attraverso le quali passa una nuova e più penetrante alienazione.
Recuperare la direzione
dietro la discrezione
Il problema, oggi, è quello di liberare i significati, di recuperare la Parola significativa nel discorso umano, di salvaguardare le identità nel grande processo di meticciato culturale che stiamo vivendo, con la mescolanza di culture più sulle antenne che nelle radici.
Solo le persone libere sono liberanti…
Vorrei passare da mediatore del sacro, da gestore di riti, da detentore dell’ultima parola a testimone, sentinella, pedagogo che non crea nulla. Diventare immagine del dito che indica la luna, ma per ritirarlo in fretta perché la gente non si fermi al mio dito. È possibile diventare solo indicatore come i segni posti sui sentieri di montagna.
Forse scegliendo la discrezione. Discrezione che è propedeutica all’attesa di chi si sente accampato nella città. Un po’ sul modello di quegli angeli biblici che aspettano come per caso qualcuno ad un crocicchio e, dopo averlo accompagnato, si dileguano senza lasciare traccia.
Pove del Grappa, 30 settembre 1997