Ricette per una economia alternativa

di Amoroso Bruno

La prescrizione delle ricette per una economia alternativa è possibile se:
1. si individua in modo corretto “lo stato del mondo”, e cioè i problemi e le potenzialità esistenti, la base materiale su cui questi poggiano.
2. si individuano i nodi centrali da sciogliere, cioè i luoghi verso cui convergono tutti i fili principali che attingono alle varie realtà e che trovano nei nodi le strozzature che impediscono il loro pieno dispiegamento.
3. si individuano le forme di organizzazione economica ed istituzionale capaci di produrre una congiunzione armonica e sinergica tra le persone, le comunità, i paesi e le aree nel soddisfacimento dei bisogni necessari.

Lo “stato del mondo”
Lo “Stato del mondo” si può oggi rappresentare mediante due cerchi:
(i) un primo cerchio è quello della globalizzazione capitalistica, che contiene meno di 1/5 dell’umanità ma che utilizza spazi ed energie della terra pari ai 4/5 di essa;
(ii) un secondo cerchio contiene più dei 4/5 dell’umanità e fa un uso limitato di beni e risorse in gran parte riproducibili.
Il primo cerchio è quello dell’apartheid globale, piccolo ma potente ed aggressivo, il risultato dell’affermarsi di un processo di clonazione delle merci e degli individui su standard di consumi, sia materiali sia istituzionali, molto alti. Il problema di questo cerchio è che tende a trasformare tutti i punti più importanti di incontro e di congiunzione tra le comunità, gli stati e le persone in nodi e strozzature mediante i quali li controlla. La globalità dell’apartheid è data dal fatto che concentra in se potere e privilegi, ma estende a tutto il mondo il proprio approvvigionamento delle risorse. Insomma, è come se la luna sostenesse di essere il “pianeta abitato” e di fornire luce alla terra.
Il secondo cerchio è quello dei “villaggi del mondo”, delle persone, delle comunità, degli stati e delle aree che aspirano al soddisfacimento dei propri bisogni mediante un forte radicamento territoriale e culturale, con forme di scambio con gli altri “villaggi”. La consapevolezza della scarsità dei beni e delle risorse produce in questo cerchio effetti contrari che nel primo, e cioè frugalità, apprezzamento e rispetto per i “beni immateriali”, valorizzazione dei “legami sociali” che ne costituiscono il fattore di democrazia intrinseca.

I nodi da sciogliere
I nodi da sciogliere, nel contesto di quanto sin qui detto, sono tre.
Il primo riguarda il legame che abbiamo creato in Occidente tra modernizzazione e velocità del cambiamento. È ciò che noi abbiamo definito, vantandocene, il dinamismo delle nostre società. La nostra dinamica è un bisogno di costante accelerazione nel soddisfacimento dei bisogni, che travalica perfino le nostre capacità di assorbimento. Il cambiamento non è più parte organica di un ciclo vitale ma un valore in sé. La crescita zero ci atterrisce. Ogni anno gli indici dell’economia e delle prestazioni devono crescere. Anche laddove, come da noi, la popolazione diminuisce ed invecchia, tutti gli indici ed anche i consumi devono continuare a crescere, non importa quali e per chi.
Il secondo riguarda il legame tra modernizzazione e scissione, della persona e della comunità. La persona è stata sostituita dall’individuo, la protezione della persona data dal contesto delle sue relazioni sociali e comunitarie è stata sostituita dai diritti e doveri dell’individuo garantiti dalla legge, l’economia e la politica sono state scisse dall’etica e dalla religione. Abbiamo il laicismo e la chiesa come due facce amputate di un’unica realtà che è così scomparsa. “Tangentopoli” e la messa domenicale sono i due angoli tristi della nostra esistenza. In mezzo c’è il nulla.
Il terzo, riguarda il legame tra colture e culture. L’origine di tutti i mali, il peccato originale della modernizzazione occidentale, nasce dall’aver scisso questo rapporto. Senza questo rapporto, policentrico per natura poiché varia da persona a persona e da comunità a comunità, il “diamante” che costituisce l’involucro che racchiude la comunità (Territorio – Popolazione – Sistemi Produttivi – Istituzioni) si spezza frantumandosi in schegge senza valore.
I nodi da sciogliere consistono nel ricongiungere quello che la modernizzazione ha scisso o legato provocando strozzature ai fini del controllo e del potere.

L’organizzazione dell’economia
Il problema ha tre dimensioni:
1. Come uscire dall’economia dell’apartheid in cui si trovano i paesi occidentali, modificando radicalmente il proprio modello di sviluppo.
2. Come difendere e migliorare le proprie possibilità di soddisfazione dei bisogni nei 4/5 del mondo.
3. Come trasformare i rapporti tra queste due aree in un rapporto di co-sviluppo.
1. L’economia dell’apartheid è un male che offre su un piatto d’argento le ricette per combatterlo. L’economia dell’apartheid è la fine dello sviluppo, cioè del mito su cui essa stessa è stata eretta. Ciò vuol dire: (i) disinteresse per il lavoro, (ii) disinteresse al soddisfacimento dei bisogni, se non quelli a più alto profitto; (iii) impoverimento dei servizi e di ogni forma di soddisfazione dei bisogni basata sui legami sociali.
In poche parole ciò vuol dire che mercato e capitalismo e quindi capitalismo e vita materiale (la società civile) si sono definitivamente scissi.
Ripensare il mercato e la vita materiale con nuove forme di integrazione e di divisione funzionale, ricreare istituzioni del mercato e della società basate su criteri di efficienza sociale e di soddisfazione reale dei bisogni occupando tutti gli spazi della produzione che il capitalismo della Globalizzazione sta abbandonando, significa costruire l’alternativa al presente. A ciò non serve il “3 settore”, i “lavori socialmente utili” o la creazione dei ghetti del “volontariato” ma l’avvio di un nuovo modello di organizzazione della comunità e del soddisfacimento dei suoi bisogni economici. In tal modo gli spazi che ancora occupa il mercato capitalistico, ristretti ma potenti, vanno contestati. Ripartire dalla piccola impresa, laddove cioè il legame tra lavoro e prodotto e tra lavoro e mercato come momenti di socializzazione sono ancora chiaramente percepiti, offrire alle piccole imprese modelli nuovi di aggregazione e di socializzazione che non solo nelle forme giuridiche ma nel modo di essere superino i modelli sin qui sperimentati è la grande sfida se si vuol fare qualcosa per contestare e respingere il potere della globalizzazione.
2. I 4/5 dell’umanità vivono di mezzi propri e con un uso parsimonioso delle risorse a disposizione. Il nostro compito è quello di impedire ogni forma di devastazione di queste economie e di dipendenza tecnologica aiutandole invece a crescere sui propri tempi, i propri valori. La cosa più importante sarebbe riuscire a non fare niente, poiché ogni nostro intervento è la causa maggiore dei mali che ne seguono. Ma nella misura in cui questo sembra difficile da ottenere, è solo cambiando il nostro modello di sviluppo come indicato al punto 1 che noi possiamo creare “anelli di solidarietà” per il raggiungimento di obiettivi comuni e complementari. La consapevolezza che il nostro modo attuale di produrre e di consumare non è esportabile ed è distruttivo per noi stessi deve essere il punto di partenza per ogni tentativo di
cooperazione economica con gli altri.
3. Gli “anelli di solidarietà” nascono dal comune riconoscimento dei valori propri di ciascuna comunità, autonomamente definiti, e delle interdipendenze necessarie ad una più consapevole amministrazione dell’esistente. Inoltre il policentrismo dei valori che queste comunità rappresentano, rischia di venire distrutto dal sistema dell’apartheid globale, dalla forza delle sue armi, malattie e tecnologie. Per questo servono gli “anelli della solidarietà”. La base del loro progresso e della loro vita economica deve essere il miglioramento delle tecniche necessarie a sostenere le condizioni di lavoro e di vita. Ma le tecniche, come insegna Pannikar, sono un sostegno o un prolungamento del braccio umano, non la sua sostituzione con una macchina alla quale dobbiamo adattarci. Il bisogno delle tecnologie, come protezione delle comunità e delle loro economie, nasce dal bisogno di difendersi dalle aggressioni delle tecnologie della globalizzazione. Ma mentre le tecniche possono venire amministrate e gestite nella vita quotidiana delle famiglie e delle imprese, le tecnologie, per gli effetti di deformazione che introducono nel tessuto sociale e le loro indescrivibili conseguenze, oltre che ai costi enormi che richiedono, possono venire introdotte ed amministrate solo da una cooperazione tra più comunità e per fini ben definiti e sapientemente amministrati dagli organi politici delle comunità