Resistenza e utopia
La gioia ti raggiunge attraverso le cose semplici, la gioia ti avvolge col sorriso del mattino, l’odore del pane, il profumo del caffè; la gioia è il perdono da dare e da ricevere, la mite speranza dell’offerta d’amore.
Provo ancora nostalgia a pensare alla domenica 28 maggio, trascorsa a Spin. Giornata splendente di luce, calda di ori e rossi primaverili.
“Alla festa di Macondo – mi diceva Umberto – non si viene solo per vedere qualche mostra o sentire nuovi discorsi, ma per incontrarsi”. Incontri magari al volo, ma intensamente interattivi, che consentono verifiche personali. Pause di serenità contemplativa in cui l’anima riposa, rimarginando ferite… e ritrova in sé la forza tranquilla e tenace che respira dalla terra, l’alito rigeneratore della Vita.
Che la festa continui
La festa è passata, ma che la festa continui. Era tutto così bello che avrei voluto non terminasse mai. Tanti baci ed abbracci. Conversazioni mille volte interrotte da nuovi amici e poi la convivenza di brasiliani, messicani, marocchini, senegalesi, ghanesi, siriani, tunisini, cristiani e musulmani aperti ad una conversazione semplice e serena.
“Dolce è il sole che accarezza e non brucia” – mi sussurra Maria Grazia, mentre osserva i voli brevi e radenti dei merli ed ascolta il fruscio lieve di rami oscillanti. Anch’io mi fermo alcuni istanti per assaporare il tranquillo respiro della terra, il silenzio della campagna, il tepore della strada, che ogni giorno riprende, nonostante tutto.
La festa e lo stesso messaggio di Macondo sono semplici segnali che abbiamo lanciato prima di tutto a noi stessi: è la sfida di impostare, in modo aperto, le nostre esistenze. La strada è appena iniziata; so bene che questa è solo la caparra della socialità e della convivenza che ci aspettano; voglio ugualmente indugiare su questo tramonto acceso sulle verdi montagne del Grappa, tempo d’invisibili congedi, di disattesa bellezza che consola.
Camminiamo trepidanti e fiduciosi coi nostri colori e sui nostri sentieri, sapendo bene che il nostro obiettivo è la vita, il nostro ritmo la pace. é certamente insolito, ma confortante, incontrare e sentire qualcuno che si dichiari soddisfatto della propria vita ed irradi intorno ottimismo e benevolenza. é un segno di speranza che ho raccolto. C’è tanto amore intorno a noi, se solo sapessimo scoprirlo. Se abbiamo amore dentro di noi: gli screzi, gli attriti, i malintesi sono sempre in agguato, perché siamo fragili. Ma più forte è il soffio che abita in tutti e in nessuno riposa.
Sarebbe bello poter gettare l’ancora in questo porto quieto, non essere sempre vascello sospinto al largo tra i marosi, navigando solitario sulla rotta di imprevedibili avventure. Fermarsi, alternando momenti di convivialità e d’incontro con altri di riflessione e di preghiera, cantando senza tempo. Ma ciò non è possibile, perché il viaggio riprende.
Dopo il muro di Berlino
Sono appena passati cinque anni dalla caduta del muro di Berlino, eppure ormai ci sembra un evento lontanissimo nel tempo, come se ci trovassimo ora in un’altra epoca. Infatti, da quel giorno, che abbiamo accolto con gioiosa sorpresa e tanta speranza, gli avvenimenti si sono succeduti con un ritmo così vorticoso da poter parlare di un’ulteriore spinta di accelerazione della storia. Tant’è vero che non si riesce a memorizzare tutto quello che accade e le conseguenze, spesso dirompenti, che provoca.
A differenza però di cinque anni fa, oggi si è alquanto attenuata la fiducia in un avvenire nel segno della libertà, dello sviluppo, della pacifica convivenza tra i popoli. Anzi, ora è piuttosto il tempo della paura dell’avvenire. Una paura profonda, oscura, a volte angosciante, la paura dell’avvenire come tale, la paura che i processi storici non siano governabili, che la disuguaglianza si accresca e la società in gestazione rischi di essere poco umana, se non disumana.
Paura e sfide da affrontare
Questa paura può apparire irrazionale, l’espressione di una fase di transizione e pertanto destinata a scomparire appena l’economia si rimetterà in moto. Può accadere così. Ma durerà a lungo? C’è da dubitarne perché ne restano intatte alcune ragioni di fondo, a cominciare da quella forse essenziale: una mondializzazione evidente della vita sulla Terra emersa nel giro di pochi anni. L’interdipendenza dei popoli, infatti, non solo si è fatta più stretta, ma le sfide che ci attendono si presentano sempre più chiaramente in termini planetari. Saprà l’umanità affrontare sfide che vanno dallo sviluppo dei Paesi poveri alla pace, all’ecologia, alla biogenetica? Sapremo accettare i cambiamenti nei modi di pensare e di vivere che tale confronto richiederà?
Ovviamente non abbiamo risposte. Ci sembra solo di poter dire con fondatezza che o sapremo progressivamente trasformare l’interdipendenza tra i Paesi della Terra in avvio di una solidarietà mondiale oppure il rischio è che si erigano nuovi muri tra garantiti e non nelle società sviluppate, e si consolidino quelli tra le nazioni ricche e quelle povere. Muri oltre che crudeli ben fragili, in un mondo sempre più interconnesso, ma non per questo meno produttori di sofferenze ed orrori.
Cambiare non è davvero facile. Siamo fiduciosi nel seme gettato nelle viscere della storia e, come credente, continuo a dire che, se l’uomo vuole, può liberarsi da tutti gli strumenti di morte partoriti dal suo orgoglio. Se sappiamo da dove veniamo e ne siamo consapevoli, siamo già in marcia nell’accogliere la vita come mistero che ci avvolge e ci comprende. Il coraggio di cambiare ci dirà dove stiamo andando. In Italia, con un uso strumentale e provocatorio della parola, assistiamo ad una contrapposizione avvilente tra il nuovo, molto esaltato, e il vecchio, troppo vituperato.
Ogni cammino nuovo è opera di minoranze
C’è qualcosa che ci aiuta a distinguere il nuovo dal vecchio? La storia ci insegna che ogni situazione veramente nuova, ogni cammino nuovo è opera di minoranze. La novità emergente è avversata perché spacca delle realtà cristallizzate e suscita la paura di perdere qualcosa o di cambiare mentalità. é accaduto perfino a Gesù. Basti pensare al valore della tolleranza: ci son voluti tre secoli perché fosse diffuso un po’ di più, ed ancor oggi non è completamente accolto.
Quando una novità ottiene successo di massa, c’è il dubbio che sia una moda o un cambiamento di facciata, quindi una continuità col passato. Per l’uomo, la novità è quindi un ideale, un traguardo. Sono i passi in avanti verso l’umanizzazione della vita e della società.
Si progredisce nell’umanizzazione quando si è disposti a perdere qualcosa, quando avviene una rinuncia al dominio su. Ogni passo in avanti sulla diminuzione del dominio e la crescita del rispetto e della libertà sono quindi una novità, non un trucco o una moda. Una persona si presenta aperta al nuovo quando è disposta a mettere in discussione se stessa, le proprie idee: non pensare domani il contrario di oggi, ma approfondendo e purificando le convinzioni precedenti e le lezioni della storia.
In campo politico, la novità si verifica in una drastica riduzione dell’avidità di potere, nella chiesa se c’è ascolto dei piccoli, apertura alle minoranze e al dialogo. Se c’è l’arroccamento in se stessi permane il vecchio e parlare di nuovo è un inganno.
A che servono – mi chiedo – tutti gli schieramenti politici, religiosi, estetici, tutti i raggruppamenti conflittuali in cui si canalizza ed esalta, autogiustificandosi, l’irrimediabile aggressività umana? A che servono, se non costruiscono l’ethos di una civile convivenza?
Abbiamo bisogno solo di coscienza morale
Di coscienza morale abbiamo bisogno, solo di coscienza. Gli uomini di oggi hanno perso la fiducia nel futuro, sono dominati dalla paura. Con Auschwitz e Hiroshima è venuta la notte. E con la notte sono tornate in auge le potenze delle tenebre, i mostri che fanno strazio della nostra razionalità e della nostra dignità morale.
Perduta ogni meta ideale, non resta che possedere cose e potere, come ultima parvenza di senso dell’esistenza. Lo spirito di proprietà, quando è tutto, si fa insaziabile ed aggressivo. Le guerre mi sembrano per lo più strumento della proprietà e del dominio, per difenderli o per accrescerli. Uccidono assai di più i ricchi per difendere il possesso e mantenere i privilegi, che i poveri per liberarsi.
Il mito della ricchezza è la deriva umana delle società opulente, come la nostra. Perché “noi non siamo tutti ricchi, ma ragioniamo tutti come i ricchi” (Bischsel, Il virus della ricchezza). Basta infatti il luccichio dell’oro a metallizzare i cuori e le menti.
L’inappetenza ai valori
È conversando coi giovani, ascoltandoli nei luoghi più disparati del loro vivere che mi è nato il sospetto che la nostra generazione di adulti sia, non solo lontana da una risposta di senso, ma che abbia una grande inappetenza ai valori. Alla voglia di relazioni, il bisogno più grande che hanno i giovani, rispondiamo con linguaggi scontati, indecifrabili, la risposta che viene data non è creativa, è protettiva.
Tutta la cultura dell’hip-hop, la break-dance, la musica tecno, ecc. manifestano la disperazione del vuoto che il giovane non accetta. La cultura del vuoto è quella coltivata da tutti coloro che ai giovani di oggi non danno più nulla, o che danno solo messaggi contraddittori, o magari coprono quel vuoto senza riempirlo di contenuti sinceri.
Nei giovani ci sono aspirazioni profonde che creano le condizioni del dialogo. L’importante sarebbe che noi adulti capissimo quello che i giovani vogliono esprimere, cogliessimo i messaggi interiori, li decodificassimo e dialogassimo senza pretese.
Il problema non è trovare la risposta preconfezionata, ma sapersi mettere dentro la domanda dei giovani, dentro i giovani che fanno la domanda. Come facciamo a trasmettere fiducia nel cambiamento quando, per pigrizia, per prudenza, per assenza, per indifferenza, per calcolo o per disperazione, non interveniamo in difesa del debole? L’evitare di inventare più strumenti di intervento in situazioni difficili quali ad esempio la disincarnazione dei giovani dalla storia o la relazione con persone in difficoltà, non accusa forse il nostro sistema di connivenze, di omertà, di diffusa stomachevole vigliaccheria o di rassegnata inerzia?
Non ci riguarda quello che accade alla porta accanto o all’angolo della strada? Dietro la facciata di queste e tante rispettabilità decorose non si nasconde forse il vermaio immondo del più spietato egoismo?
Ragioniamo tutti come i ricchi
é la persona il valore sommo e non l’economia, diventato ora il grande idolo a cui si sacrifica l’essenza, l’uomo appunto. Occorre spezzare i ritmi attuali di vita che rendono schiavi, che spingono a vivere in funzione del lavoro, del denaro e del potere per una minoranza privilegiata. Il lavoro è certo importante, è anche comandamento biblico, ma lavorare non è la dimensione principale della vita. Essa invece è la relazione con l’altro, anzitutto con la sposa e lo sposo, i figli, per chi è coniugato, lo stare con Dio per il credente.
Il mito del lavoro è pagano. Diceva Nitzsche che questo aver monetizzato il tempo ci ha resi schiavi. Non siamo più nemmeno capaci di dire: vado a fare una passeggiata perché si tratta di un fatto umano, appare tempo perso, ed allora bisogna giustificarsi dicendo che non si sta troppo bene, che l’ha consigliato il medico… un’assurdità.
Come resistere agli idoli
Se questi idoli dell’economia, del lavoro e del denaro continuano, non si costruisce una storia per l’uomo. Propongo, come conclusione, per coltivare in noi lo spirito di resistenza, alcune riflessioni da Resistenza e resa del pastore-teologo Dietrich Bonhoeffer, impiccato e poi bruciato a Flossenburg il 9 aprile 1945 dai nazisti. Meditazione, la sua, sempre attuale, che mette in guardia contro i mali profondi, mortali, della vita spirituale e civile in una società umana.
Chi potrà resistere alla “grande mascherata del Male che ha sconvolto e confuso tutti i concetti etici”, che si è presentato “sotto l’aspetto della luce, del benvolere, dello storicamente necessario, del socialmente giusto?”. Resiste “soltanto colui che non ha come ultima istanza la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma è disposto a sacrificare tutto questo quando viene chiamato ad un’azione responsabile e obbediente, nella fede e in un vincolo esclusivo con Dio”.
Di fronte al successo di sistemi condannabili, “l’interrogativo da uomo responsabile non è: come ne vengo fuori con eroismo, bensì: come deve continuare a vivere una generazione futura?”. “é molto più facile tener duro in linea di principio che in una concreta responsabilità”.
Potere e stupidità
Le pagine Della stupidità impressionano per l’attualità, essendo più sviluppati oggi, con l’informazione e l’istruzione, i mezzi di istupidimento. “Ogni forte manifestazione di potenza esteriore, sia di carattere politico che religioso, investe di stupidità una gran parte degli uomini… La potenza dell’uno ha bisogno della stupidità degli altri”, la quale è una “privazione dell’indipendenza interiore”. Lo stupido “è capace di commettere qualsiasi male e di non riconoscerlo come male”. La stupidità può essere superata “soltanto con un atto di liberazione e non con un atto d’indottrinamento”. “In tali condizioni è vano darsi la pena di sapere cosa ne pensa veramente il popolo”.
Non è vero che la maggioranza degli uomini sia stupida in ogni condizione. Il problema è “se i potenti si aspettano di più dalla stupidità o dall’autonomia interna e dall’intelligenza degli uomini”.
Bonhoeffer non denuncia, né accusa, ma ricerca quali complicità e cedimenti il dominatore può trovare nelle anime dei dominati. Così tocca le fondamenta della più salda forza di resistenza ad ogni prepotenza. Anche grazie a lui ho capito che la vera spiritualità consiste nel coraggio di immergersi in questo mondo. “Colui che evade dalla terra non trova Dio, ma solo un altro mondo, il suo mondo privato, migliore, più bello, più pacifico… non quello di Dio che viene in questo mondo. Colui che evade dal mondo per trovare Dio non trova che la propria solitudine” (Venga il tuo regno, 1975, Queriniana).
E noi costruiamo questa verità?
Pove del Grappa (Vicenza), giugno 1995