Per una teologia degli oppressi e degli esclusi
Una riflessione sulla Teologia della Liberazione
in attesa della caduta del “muro sovietico” eretto anche nella Chiesa…
Parlare oggi di una teologia degli oppressi e degli esclusi è una sfida, ed è ancora più impegnativo perché la sfida è aperta su due fronti: quello propriamente delle relazioni di una teologia cristiana con la modernità e con le contraddizioni del contesto socioculturale contemporaneo e quello delle relazioni interne alla Chiesa cattolica, con l’apertura di questioni che mettono apertamente in discussione alcuni fondamenti fino ad oggi indiscussi e indiscutibili, quali il ruolo istituzionale della Chiesa stessa, la funzione del Magistero (il Papa e i Vescovi), la centralità del testo biblico e la sua interpretazione, le scelte di campo da compiere in ambito sociopolitico, l’educazione popolare alla fede e le relazioni ecumeniche. Per questo motivo è necessario riconoscere alla fede un fondamento culturale generato dalla necessità di comprendere che la Rivelazione cristiana, così come è data, va interpretata e collocata in un contesto di riflessione che consenta al cristiano di capire chi è, dove va e quali sono le basi del suo confronto con la realtà storica. È stata proprio questa contingenza storica, con l’esplosione di pesanti e dolorosi contrasti in un contesto di povertà, di miseria e di sfruttamento, a determinare la nascita e lo sviluppo di una Teologia della Liberazione (Teologia della Liberazione), alla ricerca di una mediazione tra l’elaborazione culturale della fede e l’agire storico-politico dell’uomo, in particolare nel continente latinoamericano. Una volta stabilita questa premessa, è possibile articolare un ragionamento secondo alcuni obiettivi fondamentali: cogliere la relazione tra Rivelazione cristiana e contesto storico di oppressione, precisare un’idea di liberazione, inquadrare l’itinerario storico della Teologia della Liberazione, verificarne le difficoltà, riconoscere l’ecclesiologia (la concezione della Chiesa) che soggiace e infine, se possibile, ipotizzare un futuro.
Annuncio evangelico e contesto di oppressione
La fede esiste in quanto manifesta un’evidenza storica e non è possibile produrre una pura e semplice intellettualizzazione dell’annuncio evangelico, perché quest’ultimo può essere comunicato attraverso un’esperienza di relazioni che si esprime in un modello di società regolata da una dimensione politica ed economica, ben lontana dall’immagine intimistica, sentimentale e astratta presente spesso in molte architetture pastorali. O l’annuncio evangelico si gioca nella concretezza delle relazioni storiche o non si gioca. Allora proprio in questa prospettiva l’analisi della congiuntura sociopolitica ha evidenziato, in particolare in alcune aree del pianeta, condizioni di povertà, miseria, ingiustizia, oppressione ed emarginazione, che pongono interrogativi pressanti e angosciosi a chi elabora una riflessione sulla fede e a chi progetta un’azione pastorale, proprio perché non è possibile astrarre la povertà dal quotidiano per collocarla in un quadro esclusivamente intellettuale o formalmente dialettico (per intenderci, quello delle omelie e delle esortazioni). Quindi, in questo contesto, la riflessione teologica ha ritenuto doveroso e necessario caricarsi di una responsabilità nuova: ripensare la fede, approfondirla e purificarla, alla luce delle “voci profonde del mondo”, secondo il linguaggio cristallino e trasparente di Paolo VI. In questo stato di cose i poveri hanno incominciato a riprendere in mano la propria fede, a disegnare un nuovo modello spirituale, a interpretare la Rivelazione biblica, a modellare evangelicamente la Chiesa, riassumendo un’iniziativa perduta o lasciata nelle mani di chi esercitava soltanto una funzione accademica.
L’idea di liberazione
Per fronteggiare quest’ingiustizia storica, fatta soprattutto di soprusi e di sofferenza, irrompe l’idea di liberazione, la quale, per la verità, non rappresenta nulla di nuovo nella tradizione spirituale e teologica cristiana. È stata semplicemente riscoperta, rinnovata e attualizzata, attribuendole un aggettivo che la qualificasse in maniera decisiva: integrale. Ed è questo il passaggio decisivo e spesso aspramente contestato, perché pretende di attribuire una valenza politica all’esperienza di fede, suscitando al tempo stesso l’attenzione sulle condizioni sociali dell’uomo quale luogo di liberazione attiva. “Il senso della liberazione totale della Risurrezione ci appare solo quando lo si confronta con la lotta sostenuta da Gesù per instaurare il Regno in questo mondo. In caso contrario, degenera in un cinismo pietoso di fronte alla ingiustizie di questo mondo, in alleanza con un idealismo senza alcuna connessione con la storia” (L. Boff). Pertanto liberazione non è più solo un processo di purificazione della coscienza, ma è anche processo di affrancamento da una schiavitù che priva dei diritti fondamentali della persona, rappresentando al tempo stesso il punto di arrivo di un itinerario spirituale. Assistiamo quindi a un superamento di fatto della spiritualizzazione della categoria di liberazione, senza per questo perdere una spiritualità e una mistica della liberazione, soprattutto perché cambiano in modo radicale i modelli spirituali, i quali passano dall’immagine intimistica del deserto e dell’estraniazione dalle relazioni sociali alla rivalutazione dell’esperienza di Dio nella lotta del vivere quotidiano. Finisce il dualismo tra azione e contemplazione. “Sono estranei allo spirito del Vangelo sia la contemplazione che si allontana dal popolo per avvicinare al Padre, sia l’attivismo che non coglie il senso globale e ultimo dell’impegno. Il Vangelo non conosce il dualismo che separa il dinamismo della vita cristiana dalla pratica della preghiera. Il Vangelo annuncia l’incontro con Dio attraverso l’incontro con i fratelli, soprattutto con gli emarginati” (Frei Betto). L’itinerario della Teologia della Liberazione si colloca pertanto nella prospettiva appena accennata e le ragioni storiche della sua origine sono essenzialmente sociali.
Le dittature militari
In primo luogo occorre considerare che in America Latina, negli anni Sessanta e Settanta, una lunga serie di dittature militari sfascia il continente, creando una lunghissima serie di oppressioni e di intimidazioni. A questo proposito esistono testimonianze che documentano ampiamente le proporzioni della tragedia. In questo contesto l’oppressione è generalizzata. È politica, perché il popolo non ha più gli strumenti per determinare liberamente l’organizzazione e le scelte dello Stato, subendo altresì un’umiliazione costante da un’autorità che non ha voluto. È sociale, perché il totalitarismo riduce sistematicamente i margini di creatività e di libertà nelle istituzioni, togliendo a ogni persona la fiducia nel proprio ruolo pubblico. Ma è soprattutto economica, perché si realizza un’alleanza di ferro tra il potere politico e il grande capitale, provocando una caduta a precipizio dei valori dell’uguaglianza e delle giustizia, impoverendo paurosamente milioni di persone e generando una precarietà strutturale che colpirà le fasce più deboli, sempre meno protette.
La Chiesa si organizza
La Chiesa latino-americana si trova di fronte alla duplice esigenza di annunciare il Vangelo e di farlo per gli oppressi, cosciente di realizzare soltanto in questo modo il proprio compito storico di adattamento al modello conciliare di relazione con il mondo, a partire da una revisione culturale e religiosa molto profonda. Pertanto l’assunzione in carico della storia dei poveri e degli oppressi, la sola evangelicamente percorribile in quel contesto, raccoglie e sviluppa radicalmente la “scelta preferenziale per i poveri”, che la Chiesa universale compie attraverso l’analisi conciliare del Vaticano II, la redazione dell’enciclica pontificia Populorum progressio e le conclusioni della Conferenza di Medellin. La scelta per i poveri sarà senza ritorno e il cammino della riflessione teologica si svilupperà parallelamente, articolando i suoi contenuti sempre alla luce delle condizioni storiche degli oppressi. È la storia che fa la teologia e non viceversa.
Comunità di base a Espìrito Santo
Si apre in questo modo un larghissimo raggio di azione e di influenza in ambiti pastorali e sociopolitici. Nascono, a partire dalla regione brasiliana di Espìrito Santo, le Comunità Ecclesiali di Base (CEBs), che costituiscono un nuovo modello di Chiesa, dove il popolo dei credenti assume in prima persona l’iniziativa e la responsabilità di azione, promuovendo circoli biblici, celebrazioni simboliche e sacramentali, azioni di impegno civile e di difesa della dignità personale, progetti di educazione popolare, lasciando che la dimensione pienamente comunitaria e orizzontale potesse esprimersi senza dipendere esclusivamente dalla funzione del ministero ordinato, il quale non si appropria più di un ruolo dominatore, invadente e quasi monarchico, ma si mette a servizio dell’unità della comunità, garantendo solo la proprietà dei beni simbolici.
Spiritualità biblica
Nascono inoltre commissioni pastorali per la difesa della terra e del lavoro operaio, in modo da riscoprire una mistica biblica del lavoro e della terra da un lato e da garantire a tutti una difesa coraggiosa dei diritti al lavoro, alla proprietà e al pane quotidiano da un altro lato. In questo quadro di presa di coscienza del proprio ruolo e di conflitti aspri sul terreno, si metteranno le radici di una nuova spiritualità cristiana, più biblica e meno magisteriale, si moltiplicheranno gli atti di santificazione individuale e collettiva e purtroppo anche gli episodi di martirio, si getteranno le basi per la Chiesa del futuro, meno istituzionalizzata e più radicata nella logica evangelica e nella dinamica storica.
Educazione popolare
Ancora l’impegno sindacale e politico dei cristiani coinciderà con una lotta per una società più giusta, elaborando una critica serrata contro un capitalismo ormai fuori controllo, che soffoca sistematicamente i più deboli, generando fiumi di anawim (i poveri di Dio, secondo la concezione biblica, quindi i più poveri tra i poveri). Per maturare e aprire una sfida contro l’esclusione sociale, la metodologia dell’educazione popolare diventerà uno strumento insostituibile. È lo stesso popolo degli oppressi che si autoeduca, prendendo coscienza della propria condizione di sofferenza, definendo le strategie per uscirne, valorizzando la propria cultura, compresa quella religiosa, e riconoscendosi finalmente come insieme di persone che hanno anche diritti e non solo doveri, nel nome di una dignità determinata da Dio stesso.
La reazione degli Stati autoritari
Tuttavia l’itinerario della Teologia della Liberazione, così limpido e trasparente nei suoi contenuti, deve fare i conti con una serie di conflitti che sono sempre propri delle proposte culturali, quando queste mettono in discussione strutture consolidate, specie se ingiuste o prive di una capacità di confronto. Alla maturazione di una coscienza popolare di Chiesa e di una radicalizzazione della scelta preferenziale per i poveri si associano conflitti aspri, soprattutto contro il potere degli Stati retti secondo il modello della sicurezza nazionale e governati di fatto dal solo apparato militare e di polizia. In verità i contenuti espressi in chiave teologico-pastorale e sociopolitica dalla Teologia della Liberazione non saranno mai approfonditi seriamente da questi settori apertamente reazionari, o per mancanza di capacità interpretativa o per mancanza di volontà. Gli stessi settori erano soprattutto impressionati dalla potenzialità aggregativa ed educativa di questo nuovo progetto di Chiesa, che creava sempre di più forme di contestazione globale al sistema rigidamente elitario del continente. Di conseguenza scatteranno tempestivamente, nelle diverse aree, intimidazioni, tentativi di discredito degli operatori, sollecitazioni di intervento della Santa Sede e, in casi assai frequenti, violenze di ogni tipo.
Teologi, pastori e laici
Contemporanea a questo innalzamento della tensione, la produzione letteraria organica dei diversi teologi va affermandosi. La personalità di Gustavo Gutiérrez sviluppa la riflessione nella direzione di una nuova spiritualità della Liberazione, mentre Leonardo e Clodovis Boff accentuano in termini sistematici il profilo pastorale e politico della Teologia della Liberazione, così come avrà origine in questo periodo una nuova generazione di sociologi, giornalisti, sindacalisti che costituiranno in breve tempo lideranìças (figure responsabili) di prim’ordine. Parallelamente a questa fioritura, la Chiesa latinoamericana, ormai profondamente rinnovata nelle sue strutture e nel suo spirito creativo, esprimerà figure di altissimo rilievo umano e spirituale, da Helder Câmara a Pedro Casaldáliga, da Oscar Romero (morto martire) a Paulo Evaristo Arns, fino alle centinaia di vescovi, sacerdoti, religiosi/e e soprattutto laici che assumeranno coraggiosamente e con semplicità la causa del Vangelo di Gesù Cristo e della moltitudine dei poveri.
Il ruolo della Santa Sede.
Ratzinger.
In questo quadro il ruolo della Santa Sede passerà da un appoggio chiaro e coraggioso, sia sotto il profilo teologico che sotto quello pastorale, a un progressivo raffreddamento, già a partire dalla fine degli Anni Settanta. Si può ragionevolmente credere che il cambiamento di pontificato (da Paolo VI a Giovanni Paolo II) abbia prodotto anche un cambiamento di linea pastorale nei riguardi dell’America Latina, che ha avuto una conferma visibile con la redazione di un’Istruzione vaticana sulla Teologia della Liberazione nel 1984, promossa su iniziativa del Card. Josef Ratzinger, Prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, che mirava principalmente a ricondurre il dato della Teologia della Liberazione entro il recinto rassicurante di una teologia convenzionale controllata direttamente dall’autorità ecclesiastica, senza tuttavia mostrare la minima preoccupazione verso un profilo pastorale che aveva già messo radici profonde e compromettenti nel continente. Questo evento sarà decisivo perché segnerà la radicalizzazione dei contrasti e l’apertura del tentativo, tuttora in atto, di una nuova romanizzazione della Chiesa latino-americana (secondo l’espressione testuale a me riferita da Frei Betto), dopo quella della fine dell’Ottocento, che, come l’attuale, ha conseguito il risultato di cambiare le figure istituzionali in peggio e si è sciaguratamente dimenticata di promuovere una nuova evangelizzazione, una grande promozione umana e una forte valorizzazione della cultura popolare continentale.
Se noi ragionassimo secondo…
Se noi ragionassimo secondo l’ottica di chi interpreta la Chiesa come luogo di potere equivalente a tanti altri, potremmo concludere che la Teologia della Liberazione ha perso la partita: da vescovi di grande spessore culturale e spirituale siamo passati gradualmente a molti funzionari locali grigi e insensibili, spesso legati a filo doppio all’organizzazione da cui provengono (si veda il caso discutibile dell’Opus Dei), preoccupati soltanto di dare la caccia a inesistenti marxisti e di reintrodurre forme di azione pastorale totalmente avulse dal contesto sociale presente. In questo senso la casistica è sterminata. A ciò si aggiunge, malauguratamente, una serie incresciosa di provvedimenti disciplinari e di ritiri forzati dall’insegnamento per teologi attivamente operanti in questo progetto.
Una prospettiva di fiducia
Tuttavia, se noi ragioniamo al contrario secondo una prospettiva di fiducia nell’azione dello Spirito Santo, dobbiamo pure riconoscere che il ruolo e la maturità del laicato sono cresciuti di pari passo con la consapevolezza delle proprie responsabilità ecclesiali e sociali. A mio giudizio questo è ciò che rende sicura e promettente la via percorsa, perché c’è in ogni caso un seme buono e fecondo che è nella condizione di portare frutti altrettanto buoni. Il radicamento di una coscienza storica della fede cristiana in un contesto popolare richiede uno sforzo indicibile, ma garantisce al tempo stesso un’intrinseca forza creativa, capace di passare oltre qualsiasi tentativo di riduzione della fede dentro un quadro esclusivamente dottrinale o istituzionale.
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