Noi, dentro lo sguardo dei nostri figli

di Stoppiglia Giuseppe

Ombre senza meta, uomini senza cuore?

«Di tutto sono rimaste tre cose:
la certezza che stavo sempre
cominciando,
la certezza che dovevo continuare,
la certezza che sarei stato interrotto
prima di terminare.
Fare dell’interruzione un cammino
nuovo,
della paura una scala,
del sogno un ponte,
della ricerca un incontro».
(Fernando Pessoa)

Era il maggio odoroso

Non ho mai dimenticato i mesi di maggio della mia infanzia. Come avrei potuto? Erano giorni di cieli aperti e di ciliegi in fiore, di finestre dischiuse all’aria nuova, di rinato brusire fra le nuvole rosa dei meli. Erano giorni di festoso vociare fra le case, i campi e gli orti. Correva come un brivido il richiamo al risveglio e rispondeva un’esplosione di nuovi germogli.

Chiunque, in quei giorni, andasse in cerca di mia madre non l’avrebbe mai trovata dentro casa. Lei era sempre nei campi o nell’orto, armata di zappa e di rastrello a curare, rincalzare le pianticelle di tabacco, di granoturco, di pomodori e di piselli. Potava, concimava, estirpava l’erbaccia come fosse un nemico personale. A maggio curava pure i fiori: narcisi bianchi e gialli, i lilla con un aroma da capogiro, le genziane e le rose. Rimaneva china ore e ore; solo ogni tanto, le mani ai fianchi, si tirava su e restava a guardare il suo lavoro e «a pregare», diceva mio padre.

Delle rose le mie sorelle facevano un mazzo ogni giorno e quando, dal campanile della chiesa risuonavano i tocchi delle campane, correvano tutte a cambiarsi per il fioretto mariano. Con la nonna, mano nella mano, salivano la strada per portare il loro mazzo di rose alla Madonna. La strada era un via vai di donne e di bambini, tutti diretti alla chiesa grande. Là ci accoglieva una penombra profumata e quieta. Dalle finestre in alto filtrava il sole e i suoi raggi scendevano a scherzare sopra l’altare e lungo la navata: cercavano le donne fra i banchi per accarezzare i loro vestiti, timidamente, per non turbare silenzi di preghiera; arrivavano invece, sbarazzini, sulle teste dei bambini e, frugandone i capelli, creavano sprazzi di luce e di colore.

Poi il sacrestano, con il moccolo sopra l’asticella, accendeva tutti quanti i ceri e illuminava la Vergine Maria nella nicchia su in alto. Ed ecco don Vittore, con al seguito tanti chierichetti, tra il profumo d’incenso intonava il canto: Ave, ave, ave Maria e la sua voce risuonava possente per tutta la navata della chiesa.

Con la nonna, io pure, piccino e irrequieto, trovavo sempre posto sotto il pulpito, nel banco accanto a una colonna. Seguivo a stento tutta la funzione. Troppo forte era la voglia di guardare gli amici che trovavano tutto molto divertente, tanto da non frenare le risate.

All’uscita di chiesa, noi ragazzini eravamo come uno stormo in libertà e la piazza, davanti al fornaio, era quanto ci voleva per dare sfogo alle energie represse per quasi un’ora. Nel cielo di un turchino bruno le rondini garrivano festose e sfrecciavano in basso, incuriosite da tutta quella nostra ilarità.

Sono tornato nella chiesa grande del mio paese, nel banco vicino alla colonna. Il pulpito non c’è più. Sui banchi nonne e solo nonne. Bambini niente. Non c’è più don Vittore, solo un prete venuto da lontano. Nella nicchia, la Vergine Maria sembra rattristata. All’uscita, la piazza – ora un parcheggio – senza più voci e anche senza voli, mi è sembrata, a un tratto, sola e desolata.

Nati per rubare

«Ho rubato un orologio / e l’ho messo sotto le costole / per far sì che il mio petto non sia vuoto / per far sì che dentro non ci passi il vento. / Lo puoi sentire proprio bene come batte sotto la camicia / se pensi che sia il cuore ti sbagli. / Io il cuore ce l’ho in gola da quando sono nato» (Miroslav Antić, poeta serbo).

Avere il cuore in gola è lo stato d’animo di tutti i bambini Rom che vivono in Italia e che non rubano. Ci sono altri bambini, oltre ai Rom, che stanno male in Italia e nel mondo.

Un amico di Palermo, che lavora in una fondazione antimafia, mi ha raccontato che nel maggio scorso, per la recita in una scuola, avevano proposto un tema sulla mafia. I bambini l’hanno rifiutato. Si è deciso, allora, di fare un piccolo sondaggio tra i ragazzi per capire cosa avrebbero preferito rappresentare. Tutti, nessun escluso, volevano mettere in scena una rapina in banca e uccidere i poliziotti.

Nello stesso periodo, a Napoli, le maestre delle scuole di Ponticelli hanno proposto ai bambini un tema sul drammatico episodio dell’assalto ai campi Rom. Nei temi e nei disegni si inneggiava al rogo dei campi, dove molti di loro avevano addirittura partecipato.

Di chi sono figli questi bambini? Non solo dei loro genitori naturali, ma anche di questa «cultura» dell’intolleranza e razzista che percorre da anni il nostro Paese. Sono figli di chi, sulla copertina del settimanale Panorama del 4 luglio 2008, criminalizzava un intero popolo con la foto di un ragazzo rom, piegato su una panca, il volto nascosto dalle mani, con il titolo Nati per rubare.

Usare il pregiudizio razzista per favorire una politica che crea un’emergenza inesistente, speculare sui bambini in maniera disonesta e falsa non è solo un’infamia, ma un crimine morale. Nessun bambino è nato per essere ladro, mafioso o assassino.

Con il cuore in gola

Quando delle idee eversive o razziste vengono presentate come delle idee normali, come opinioni rispettabili espresse all’interno di un dibattito fra persone civili, significa che il razzismo e l’eversione trovano diritto di cittadinanza nel quotidiano di chi ascolta. Infatti la copertina vergognosa di Panorama non dà luogo a reazioni di alcun tipo, anzi veicola l’idea stupida di chi continua a pensare che la moralità dei comportamenti dipende dall’etnia cui si appartiene.

«La differenza – scrive Norberto Bobbio – è fra chi prova un senso di sofferenza di fronte alle disuguaglianze e chi invece non lo prova e ritiene in sostanza che, al contrario, esse producano benessere e quindi debbano essere sostenute. In questa contrapposizione vedo il nucleo fondamentale di ciò che è sinistra e di ciò che è destra».

È in atto in Italia e non solo, un processo d’imbarbarimento per cui quello che conta non è il merito delle opinioni, ma il «gradimento» di un pubblico distratto, svogliato e pericolosamente poco informato.

Occorre difendere i bambini, qualche volta dai loro genitori, ma sempre da questa politica criminale, che non si fa scrupolo di usarli per i propri interessi di bottega, impegnandoci affinché nessuno di loro abbia il cuore in gola: né quelli di Palermo, né quelli di Napoli, né quelli Rom, né nessun altro.

Prendersi cura dell’altro

Un proverbio africano dice che «I nostri padri non ci hanno dato in eredità il mondo, lo abbiamo in affitto dai nostri figli». Quale mondo restituiremo loro? Appare difficile saperlo, anche perché appare difficile, oggi, ricreare e individuare luoghi nuovi di appartenenza, ma soprattutto appare difficile comunicare.

La semplice esteriorità dello stare assieme, superficiale e banale, ha distrutto le relazioni fra persone che si guardano in faccia e si interrogano con gli occhi e le parole. La velocità dei rapporti ci fa sentire spesso nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Inoltre, appare sempre più chiaro che, per quanto riguarda i giovani e gli anziani, sia in crisi il prendersi cura della vita.

Il giovane demotivato prolunga i tempi dello studio, si deresponsabilizza, delega molto ai genitori, accontentandosi di piccole licenze che scambia per libertà. Gli anziani più deboli vengono affidati a terzi e il prendersi a cuore chi ci è vicino diviene una questione economica. Se nella convivenza non ci si prende cura uno dell’altro, cosa si fa? Qual è il significato di una relazione, di un legame?

Mi chiedo spesso, e a volte con angoscia, cosa passa per la mente di un bambino rom, di un ragazzo o di una adolescente delle nostre città o dei nostri paesi.

È dentro di loro che nasce il malessere di un’intera società. Ai margini dello «spettacolo mediatico» si sente l’eco di una società priva di speranza: morti sul lavoro, disoccupati, suicidi di giovani e anziani colpiti dall’indifferenza, immigrati colpevolizzati ed emarginati, violenza nelle famiglie e nelle scuole, territori sottoposti interamente al dominio della mafia.

L’assenza di un rapporto con il futuro, che è il massimo dell’alterità, e vivere alla giornata come facciamo, è la negazione della vocazione umana di coltivare la speranza in un avvenire diverso.

Padroni a casa propria

Questa dislocazione quali effetti comporta sulla nostra soggettività e quale impatto può produrre sulla nostra vita personale? Cosa ci portiamo «dentro» in questa transizione di appiattimento culturale e valoriale? Domande forti, forse provocatorie, ma indispensabili.

Quando una società si atomizza, si perdono tutti i legami che consentono un’elaborazione collettiva e si scava una sorta di vuoto del quale approfitta l’ideologia dei media. Questi ultimi hanno cambiato i gusti, gli stili di vita delle persone, massificando tutto e tutti. La massificazione apparentemente esalta l’individuo, ma distrugge la persona; l’individuo diventa un numero, un puro fatto quantitativo, mentre la persona è una specie di mistero, di intreccio, di vissuto, di trascendenza.

La distanza della vita interiore, del sostare presso di sé per interrogare il senso di quello che facciamo, è l’obiettivo inconsapevole per la bieca manipolazione dell’immaginario sociale.

Lo slogan della Lega «padroni a casa propria» è ridicolo. Per capirlo basta analizzare la mancanza di autonomia in cui precipitano le persone a cui è stato tolto il senso dell’interiorità.

Il trionfo dell’esteriorità produce la persecuzione dell’estraneo, incrementa il razzismo, perché nell’immaginario autarchico non c’è alcuno spazio per qualcuno che sia diverso dall’identico al proprio piccolo io.

Nel cuore dell’uomo

Un’egemonia culturale antiumanistica e antisolidaristica ha fatto della scienza, del denaro, del successo, i nuovi idoli e ha disgregato il tessuto della società. Lo stesso volontariato vive giorni tristi, oscuri, confusi, schiacciato com’è dalla cultura dell’utilitarismo. È corteggiato e remunerato dalle istituzioni pubbliche per le sue «opere buone», nell’assistenza e nel sociale, perdendo così il suo carisma più originale, la gratuità e la profezia. Il nostro compito? Dare fiducia. Senza fiducia, senza fare credito più che fare cassa, non si cammina, non si trova nulla. Riprendere seriamente lo stile del Vangelo, per cercare di trasformare questo mondo in un mondo di persone. La regola dell’amore è la dismisura, la sovrabbondanza. Il precetto di dare senza contraccambio (Lc 6,35) è una sintesi dei vangeli. Le chiese hanno senso per testimoniare questo, non per benedire e puntellare la legalità statale, la quale non è sempre pari alla giustizia. Dovremmo soggiornare meno nei luoghi di culto e occuparci di più del cuore dell’uomo. Avere più comprensione per capire chi siamo e quali rapporti abbiamo con lo spirito, superando la rigidità dei dogmi e delle norme.