Morte e apoteosi dell’eroe ultimo
Mi sono riunito con i catechisti, come facciamo tutti i mesi per preparare i Vangeli delle domeniche seguenti. Ma inevitabilmente abbiamo parlato della tragedia di Imola e dei funerali di Senna.
È innegabile che c’è stata manipolazione del sentimento popolare. I mezzi di comunicazione sociale, oltre a ripetere immagini fino al parossismo, presentavano la partecipazione ai funerali come ovvia, prevedendo un milione e mezzo di persone, invitavano a preferire i mezzi pubblici ai privati, raccomandavano di attenersi alle indicazioni. Il Governo ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale, ha concesso punto facoltativo ai suoi innumerevoli funzionari e dipendenti. Quindi gli studenti hanno esigito vacanza. Infine, la città si è fermata.
La strumentalizzazione demagogica c’è stata, non rimane dubbio. Ma essa non è sufficiente a spiegare quello che è avvenuto. Personalmente mi sono chiesto se questo non sia un popolo già irrimediabile, se non varrebbe la pena desistere.
Per cominciare, la disperazione. Un popolo senza vita reale, vive dei e nei sogni delle telenovela e dei campioni sportivi (sempre carichi di patriottismo). Ecco che Senna, eterno vincitore, è padre e madre che dà vita al popolo. Se non dà il pane, dà il circo. Nel circo dell’autodromo Senna diventa l’eroe, l’idolo, il mito. È l’unico a vincere facilmente, uno dei pochi brasiliani a vivere una vita non disumana: diventa dio.
Con la sua morte, Senna padre-e-madre lascia il popolo orfano, come di fatto lo è da sempre. Con la sua morte, Senna eroe getta il popolo nella confusione mentale. Fin dai tempi antichi l’eroe è semidio, non può morire. Allora, per vincere la disperazione, per evitare la perdita dell’identità, bisogna negare la morte. Senna non è morto, semmai è morta la Formula 1. Eppure, paradossalmente, era di nuovo la Formula 1 e il circo a vincere (le emittenti televisive vissero giorni trionfali!).
La morte negata è chiamata anche apoteosi. Entra la samba, i canti di vittoria, le bandiere, gli onori di un capo di Stato, i giochi in suo onore.
Ma forse è più vicino al nostro caso il fenomeno antico del cannibalismo. Al funerale molti portavano in volto i solchi scavati dalla fame. Fame che strazia dentro e scatena più fame ancora, fame atavica che non si spegne, fame materiale e esistenziale. E ogni persona, del milione e mezzo, si portava un brano, un morso di Senna, per appropriarsi della sua forza. Per questo ai “popolani” non era permesso avvicinarsi alla bara, per evitare che “sbranassero” il dio. Ma la distanza era forse un elemento mitizzante, così tutti potevano addentare il cuore del dio. Un popolo di vinti vuole la sua parte alla gloria di uno, nato mortale come loro e diventato dio vincitore.
Ho scritto su un giornale locale: “Nell’ultima favela di San Paolo è morto, di fame e di miseria, Ayrton S. da Silva, di 3, 4 anni. Nessun giornale ne ha dato notizia”. Adesso mi domando: sono stato profeta? o crudele? o stupido? Chi mangerebbe il cuore di un bambino povero? (forse solo le signore del Primo Mondo).
Così, senza immaginarlo, siamo arrivati alla riflessione sul Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Christi). È di nuovo una festa di tempi bui? Festa di cannibalismo sacro? Ma i giudei si scandalizzarono quando Gesù ha offerto il suo corpo come alimento. Perché?
Perché Gesù era l’anti-eroe. Lui conosceva il proverbio: “Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi”. E si è offerto come cibo realisticamente, senza sublimare la fame. Questo l’anno capito tutti, sì, tutti. E i capi giudei se ne sono scandalizzati; ma gli apostoli hanno accettato (lentamente) di mangiare Cristo, nel senso di scommettere la vita per lo stesso ideale, che era mettere una basta al “panem et circenses” e dare al popolo vita degna.
Non demordere!