Morire di lavoro

di Panebianco Fabrizio

Argomento quanto mai urgente e attuale, le morti sul posto di lavoro hanno occupato le prime pagine dei quotidiani nazionali e titoli su alcune testate straniere.

Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) in Italia ogni anno muoiono circa 1.350 persone per cause direttamente collegate all’attività professionale (più di 3 ogni giorno), e circa in 100.000 denunciano infortuni non letali. I lavoratori immigrati registrano un tasso di mortalità sul lavoro circa doppio rispetto alla popolazione italiana, in quanto lavoratori in settori a più alto rischio (uno dei settori nei quali la mortalità è maggiore, per esempio, è quello dei trasporti). Da un punto di vista puramente economico, la perdita stimata dall’Inail per la mancata prevenzione sul lavoro ammonta a circa il 3% del Pil: il calcolo si basa sul fatto che maggiori infortuni implicano, per esempio, maggiori spese da parte del sistema sanitario pubblico in termini di cure e assistenza mediche.

La situazione mondiale è, prevedibilmente, amplificata: secondo i rapporti annuali dell’ILO circa 2,2 milioni di persone nel mondo, ogni anno, perdono la vita in incidenti sul lavoro o per cause direttamente collegate a esso. Andiamo più nel dettaglio: i paesi a più veloce industrializzazione, tra i quali quelli dell’America Latina e la Cina, registrano gli incrementi più significativi in valore assoluto; nella sola Cina, dal 1998 a oggi, i morti annuali sono passati da 73.500 a più di 100.000. Guardando però al numero di morti per 100.000 lavoratori, si scopre che le aree in cui si muore proporzionalmente di più sono l’Africa Sub-Sahariana e la generalità dei paesi asiatici: un lavoratore di questi paesi ha una probabilità di morire sul lavoro 5 volte più alta rispetto a un lavoratore in un’economia di mercato avanzata, e doppia rispetto a Cina e India. La causa è la maggior percentuale di lavoro informale e non legale di queste zone, che non permette ai lavoratori di essere sottoposti alle pur deboli tutele assicurate ai lavoratori regolari.

Ma di cosa si muore maggiormente? Secondo dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità la prima causa è indiretta e consiste in tumori che causano più di un terzo delle morti: la mancata legislazione in molti paesi a recente industrializzazione fa sì che ogni anno circa 100.000 persone muoiano per cause imputate all’amianto e un totale di 500.000 per effetti delle sostanze chimiche manipolate. La seconda causa di morte è invece per incidenti e violenza subita sul posto di lavoro: quest’ultima in particolare è causa diretta di più di 50.000 morti annui. Esistono, inoltre, sostanziali differenze tra le cause di mortalità maschile e femminile: le donne muoiono specialmente per cause legate a lavori agricoli e all’uso di pesticidi e diserbanti tossici, mentre gli uomini per cause legate a lavori industriali.

A fronte di tutti questi drammi, non tutti i paesi sono forniti di legislazioni a tutela della salute dei lavoratori in quanto molto spesso una legislazione più restrittiva implicherebbe, soprattutto per i paesi in via di industrializzazione, maggiori costi per le imprese e dunque una ridotta competitività. Le uniche norme esistenti a livello internazionale sono assolutamente non vincolanti e l’opera portata avanti da organizzazioni internazionali quali l’ILO sembra essere più una battaglia di persuasione. Nel contesto attuale, la via più promettente per convincere le imprese e gli stati a tutelare maggiormente i lavoratori sembra essere quella di calcolare le perdite economiche associate a queste morti che, come calcolato per il caso dell’Italia da parte dell’Inail, possono essere molto ingenti. La strada che i governi dovrebbero percorrere per promulgare e implementare una efficace legislazione in materia sembra infatti molto lunga.