Memorie di un capannone

di Deganello Sara

Alla ricerca di un luogo umano

Una terra feconda di storie
Parla la strada, parla attraverso la nonna che racconta. L’auto procede lenta seguendo i budelli della carreggiata che si snoda nei campi. Geometrie di fossi, filari di platani, casette a schiera per gli ultimi arrivati, larghi porticati ad archi di quelle che furono le fattorie delle famiglie allargate. Tutti insieme sotto a uno stesso tetto, braccia per i campi in un lavoro comune, una fatica stagionale.
Una terra abitata e ricca, feconda di storie. Un luogo natale, come ciascuno di noi ha. Un luogo originario e intimo.
Sfilano le case dal finestrino e scorrono i ricordi della massaia: qui c’era il nostro mugnaio, qui si andava a comprare la stoffa per fare i vestiti, qui c’era l’asilo, qui la scuola elementare, qui la farmacia, qui venivo a vendere le faraone. Gli occhi della nonna vedono quello che io non posso vedere, e allora immagino. Ma quante cose sono cambiate, rispetto ad allora. Oltre alle case, le possibilità e le conoscenze si sono moltiplicate, le distanze ridotte, i pregiudizi – a volte – superati. La memoria della nonna si è costruita lì, la mia altrove. Con lei sento tuttavia la sintonia di un comune legame d’affetto con quelle mura, quei tetti, quegli angoli, davanti o dentro ai quali eravamo vissute: io nella sua storia, e lei nella mia promessa. Lei snocciolava nomi e visioni lontane, disgrazie, personaggi bizzarri e protagonisti di eventi mirabili che si allineano uno dopo l’altro, come le stagioni naturalmente si susseguono. D’altra parte era la vita, quella che stava raccontando. E il suo rapporto privilegiato, in quel personalissimo punto del mondo, con la natura. Una storie tra le tante di contadini e della loro vicinanza estrema con la morte e la vita, il fuoco e l’acqua, la tempesta e il sole, la terra.

La terra riconvertita in cemento
A un certo punto, improvvisamente, la nonna tace. Siamo entrate nella zona industriale e lei, a un tratto, non trova più niente da dire. Anzi, le sensazioni che questo luogo le evoca sono spiacevoli, la inducono al silenzio. Quei blocchi prefabbricati le ricordano di come la terra sia stata riconvertita in cemento e di come la sua civiltà contadina sia rimasta incuneata in uno stretto corridoio industriale. Lei l’ha provata sulla sua pelle la trasformazione dei terreni a uso agricolo in terreni edificabili, lasciati alla gloria dello sviluppo delle imprese altovicentine, alla fame di guadagno e alla speculazione che ne è seguita. E tutti noi l’avevamo visto, questo cambiamento, noi che andavamo ad acchiappare i girini nelle basse pozzanghere che si formavano sulla striscia di terra incolta, là oltre la vigna e l’orto, o le lucciole vicino ai cespugli del fosso. Noi che mangiavamo le more selvatiche dei rovi, prima che venisse l’asfalto. Me lo ricordo l’asfalto, quando è arrivato. Andavamo scalzi a tastare la calura del catrame sotto la sabbia che vi avevano gettato. Poco alla volta le fabbriche e i capannoni si erano mangiati tutto. E dopo la scorpacciata non avevano più niente da dire.
Nessuna meraviglia da raccontare, nessun personaggio da evocare.
Nessuno di noi vi andava a lavorare. Li conoscevamo solamente perché ci avevano modificato il paesaggio tutto interiore dei luoghi delle scorribande, dei giochi, delle gite in trattore. Ricordo la stradina bianca che correva vicino alla piccola palude, dopo la stanga. Vi crescevano iris selvatici, blu. Portava alle rotaie del treno, che si attraversavano in un respiro, senza coscienza di progresso economico. E poi, ancora oltre, la fontana sotto il capitello, una grande casa colonica. Adesso su quei luoghi sorge la holding di una fabbrica di acquari, con le pareti a specchio. Non si può più arrivare a toccare i binari. Al posto della palude, una fontana con erbe esotiche. E un grande parcheggio. Non si sentono più le voci delle scampagnate. Solo qualche lavoratore in bicicletta.

Punto di partenza… e di ritorno
La grande macchia selvaggia che era stata la giungla delle nostre esplorazioni del mondo è diventata una zona industriale. I racconti sono stati uccisi dai prefabbricati sbucati dappertutto, come funghi dopo la pioggia, in un tempo brevissimo. Prefabbricati nati muti come una tomba. Grandi, monocromatici, asettici. Illuminati da lampioni gialli e da guardie giurate, creano di notte lunghi viali disabitati.
Nessuna vita interiore si innalza dal grande capannone, nessuna intimità. Nessuna storia capace di trasmettermi qualcosa, di riportarmi a qualcosa di mio. Un silenzio irreale in cambio del benessere, della comodità, della modernità.
In cambio della velocità e del progresso tecnologico, delle ferie in agosto e dei pomodori a Natale, dei discount e dei monolocali, dei voli a basso costo, dei film da scaricare su internet, dei ristoranti cinesi. La parabola del capitalismo.
Così tanto tesa da essere finita per strappare le fabbriche alla terra su cui erano state costruite. Per spostarle in qualche nuovo punto a oriente o a sud, più vantaggioso. (E così accade che gli edifici ritornino vuoti, finendo così per svelare la loro profonda verità. Non erano che un involucro, non un valore).
Ma la zona industriale che ruba la memoria contadina, ne restituisce una nuova, fatta di lotte sindacali, diritti dei lavoratori, coscienza urbana. Il lavoro industriale accende la miccia dei problemi sociali, e la comunità si attiva per risolverli. Il panorama mutato, desolante se lo si attraversa di sera o di domenica, ritrova dunque una sua parola: l’uomo, centro di vitalità, di irripetibilità, imprevedibilità e naturalezza, che lo abita seppur con nuovi ritmi e nuove abitudini. L’elemento umano era e si riconferma il valore attorno al quale si costruisce il paesaggio, il principio che rende gli edifici parlanti, depositari di una storia e di un’intimità carica di senso. Se l’uomo non si fa sopraffare da quelli che devono rimanere strumenti di benessere e non scopi in sé – la tecnologia, il guadagno, l’efficienza – il posto che occupa rimane un luogo originario e prezioso, perché riferito a se stesso.
Così il mondo si ripopola di parole familiari, umane: sono la nostra storia e la nostra memoria. Una vita stratificata e modellata dal ripetersi delle azioni e degli spostamenti, spalmata su tutto ciò che abbiamo toccato, cambiato, amato. La geografia che meglio conosciamo, quella in cui non ci perdiamo. Il punto di partenza, da cui partire e a cui tornare, o in cui restare. Per sentirsi a casa.