Meglio in trasferta
La Tim, assolutamente non richiesta, mi invia quotidiani sms sulle grandi notizie del giorno. Il petrolio ai nuovi massimi, piuttosto del crollo delle borse europee, l’elezione del primo post-comunista alla presidenza della repubblica o l’ennesima megafusione di due colossi dell’economia mondiale. Tutto regolare.
Basta premere due volte e cancellare. Ma l’ultimo messaggio l’ho conservato. Mi è sembrato memorabile nella sua insensatezza. È un apologo del «dove stiamo arrivando». Eccolo, e provate a pensarci un po’ su: «Qatar, sceicco vince all’asta numero a 7 cifre uguali (6666666) per 2.750.000 dollari». Io, sarà per tutti quei 6 in fila, ho sentito odor di zolfo.
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In Italia le elezioni non finiscono mai. Come gli esami. E alla fine si comincia sempre da capo. L’ultima volta è stata una lotta senza esclusione di colpi, una sfida all’ultimo sangue. O, come dicono i bambini: Chi vince questa vince tutto! Invece no. Il Cavaliere non ci sta a perdere. E chi ha vinto si comporta peggio del vinto, allestendo un governo ipertrofico, zeppo di ministri e sottosegretari per compiacere partitoni e partitini.
Odio il qualunquismo, la frasi topiche da bar sport: I politici sono tutti uguali…
quel che conta sono solo le poltrone… la politica è una cosa sporca… Ma insomma, bisogna pur dirlo che la nostra classe politica – tutta, a destra come a sinistra – ce la mette tutta ad alimentare la vocazione qualunquistica degli italiani.
Il «nuovo inizio», almeno per ora, nessuno l’ha visto. Piuttosto, ogni ministro o viceministro ha fatto il suo piccolo proclama. Infischiandosene delle bacchettate del povero Prodi.
Manzoni fa dire a Don Abbondio: il coraggio, uno non se lo può dare, ma Prodi dovrà trovarlo un po’ di coraggio: vivere nel continuo terrore di perdere il voto di un senatore, lo condannerà al ruolo di vaso di coccio.
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Si ricomincia da capo. Chiunque pensava che sarebbe bastato battere sul campo il cavaliere azzurro per aprire una nuova pagina della repubblica, deve oggi ricredersi.
È per il fatto che la vittoria è stata di misura? Non credo. Anche se la sconfitta fosse stata più netta, la tattica del Cavaliere sarebbe stata identica.
Berlusconi – il suo populismo, il suo rifiuto della sconfitta, il suo disprezzo per le istituzioni, il suo carisma eversivo, il suo appello alla rivolta fiscale o alla secessione parlamentare – sta diventando una vera e propria emergenza democratica.
Non è solo un topo in gabbia o un re senza corona. Non è solo un megalomane.
Non è solo spaventato per i suoi colossali interessi economici in bilico o i guai giudiziari che gli gravano sul capo. Non fa pena. Non è ridicolo. Fa paura.
E non esiste nessun esorcismo per «eliminare dal gioco» uno che, programmaticamente, rifiuta le regole del gioco democratico. Anzi, che le regole vuole cambiarle da solo, a suo uso e consumo.
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È successo con la legge elettorale, cambiata a poche settimane dal voto. Ed è successo con la Costituzione Italiana, cambiata a colpi di maggioranza.
Come se la Juventus, ospitando il Messina a Torino, allo Stadio delle Alpi, pensasse di rimpicciolire la sua porta e di raddoppiare la porta avversaria.
Così non vale!, direbbe mio figlio Toto, cinque anni appena compiuti. Invece è esattamente quello è accaduto nell’ultimo scorcio di legislatura.
Se la coalizione di centrosinistra ripagherà il centrodestra con la stessa moneta; se, visto che oggi «gioca in casa», pretenderà di cambiare da sola le regole del gioco contro la squadra avversaria, allora Berlusconi avrà davvero vinto.
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Non sono un gran tifoso. Tutt’altro. Ma se leggete Osvaldo Soriano – un grandissimo scrittore argentino recentemente scomparso – converrete anche voi che il calcio è il gioco più bello del mondo.
La palla è rotonda è corre dove vuole.
Imprevedibile? Quello proprio no. E non c’era da aspettare lo scandalo Calciopoli, bastava fare il conto dei milioni di euro degli ingaggi, il numero delle società fallite e retrocesse, le denunce a mezza voce, la corsa senza esclusione di colpi per i diritti televisivi…
La cosa che più mi colpisce è la figura, e l’eloquio, del grande burattinaio. Luciano Moggi, il capo indiscusso della cupola, quello che faceva il bello e il cattivo tempo in campo e fuori campo, è un uomo che fatica a parlare l’italiano e si esprime prevalentemente per insulti, bestemmie, e porcherie varie.
Nessuno può credere – come giura Galliani, vicepresidente del Milan e, guarda caso, presidente anche della Lega Calcio – che Moggi fosse il carnefice e tutti gli altri semplici vittime. Ma sicuramente Luciano Moggi è un ottimo testimonial del calcio contemporaneo.
La sua volgarità è la decalcomania di un mondo che ha scambiato la poesia del gioco con la volgarità del business.
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Forse dovremo imparare a giocare sempre fuori casa. Sempre in trasferta. Senza arbitri amici. Senza porte restringibili o espandibili. Senza regole da cambiare a nostro piacere.
In trasferta, con il pranzo al sacco e un ricambio, uno solo, nello zaino.
Perché una partita o un torneo di calcio – proprio come una legislatura parlamentare – ha senso solo se rispetta le regole. Perché se la palla è rotonda, è normale vincere oggi e perdere domani.
Altrimenti finiranno gli spettatori negli stadi. E finiranno gli elettori alle urne.
Rimarremo muti davanti al video.
Questi e quelli – tifosi ed elettori – qualunquisti per forza, si accontenteranno di vedere il mondiale o Porta a porta in tivù.
Ma a quel punto non saremo molto lontani dalle profezie di Orwell. Con la differenza di qualche inevitabile interruzione pubblicitaria.