L’inquietudine e il sogno

di Galieni Massimo

Ho iniziato a sfogliare il Diario di un viandante durante una interminabile fila all’ufficio di collocamento. Un filo comune, nitido, collegava l’umanità dolente, sfiduciata e abbrutita da cui ero circondato alla lucida e appassionata prosa che andavo leggendo.

Pensavo «non c’è bisogno di andare lontano o di scendere tanto in basso per toccare con mano i fallimenti del presente».

Un presente che Giuseppe Stoppiglia viaggia e racconta. Il suo è il diario di bordo di un viaggio durato nove anni: la nave è Macondo, associazione per l’incontro e la comunicazione fra i popoli fondata nel 1988. Articoli apparsi su Madrugada, il mensile dell’associazione, lettere ai soci e relazioni alle assemblee, frammenti e riflessioni che traggono spunto da disastri epocali come dai versi di un poeta o dal semplice risvegliarsi. Si apre nell’aprile del 1991 fra le macerie della Guerra del Golfo, si chiede nel marzo 1999, un attimo prima che un nuovo conflitto divampi.

E in mezzo ci sono questi anni già dimenticati, già lontani. Piccole e grandi tragedie immediatamente rimosse. Ma un diario serve proprio a non perdere la memoria, a riconoscere, nel tempo come nello spazio, una rotta percorsa. Lo rileggi e ti accorgi di come non si tratti di frammenti strappati ad una statica quotidianità; la rotta non è, non può essere, lineare ma il narrare non è quello di un naufrago alla deriva.

Viaggiare oggi non è semplice. Si può facilmente essere turisti della cronaca, riempirsi occhi ed orecchie dei pacchetti tutto compreso che ci riservano i media, ma questo non è viaggiare. Occorre il vento dell’indignazione e dell’utopia per muoversi, per affrontare le tempeste del pessimismo e della rassegnazione come la bonaccia del quieto vivere, per resistere alla voglia di fermarsi finalmente stanchi in un porto tranquillo e, malgrado tutto e tutti, ripartire.

Non piace all’autore questo presente, come potrebbe essere altrimenti. Chiunque provi ad uscire dal proprio guscio di figlio garantito del mondo opulento e ad attraversare quel confine sempre più invalicabile che separa gli inclusi dagli esclusi non può che incazzarsi.

Si naviga in un oceano di disprezzo e miseria, governato dall’idolatria della moneta. L’orizzonte è il mercato che da strumento si fa legge inviolabile la cui osservanza è demandata a una politica ridotta a sterile amministrazione, priva di qualsiasi fondamento etico. Ma poi ci sono quei quattro quinti del mondo fatto di uomini e donne la cui sopravvivenza è contrassegnata dalla precarietà, senza futuro, perché hanno avuto la sorte di nascere in Somalia, nel Chiapas, in una favela brasiliana o perché troppo deboli per affrontare la violenza della competitività che caratterizza il vivere in un paese come il nostro. E si tratta di scegliere da quale parte stare e poi di rendere concreta e operativa la scelta di parte.

La speranza condivisibile di Giuseppe Stoppiglia al di là delle proprie convinzioni politiche o religiose, poggia sulla comunione delle differenze, su quella capacità che si acquisisce soltanto attraverso il viaggiare, di recepire intimamente la ricchezza insita nella pluralità delle culture e delle sensibilità altrui.

L’altro, il povero, il rifugiato, il diseredato, non è soltanto il debole a cui esprimere solidarietà, termine di cui troppo facilmente si abusa. Cosa significa essere solidali? Aiutare il terzo mondo a integrarsi nel primo?

«, Temo che il metodo capitalistica delle multinazionali, che, sotto la cappa dell’integrazione economica, nascondono lo sfruttamento più cinico e crudele, contamini l’intenzione così umana e cristiana della solidarietà».

Continuamente il Diario si sofferma su parole come umiltà, amare, misericordia, elementi necessari ed essenziali per poter incontrare realmente l’altro, per poter condividerne il cammino. Questo significa accettare il rischio, rinunciare alle pretese della propria tecnologia vincente e accostarsi alle infinite possibilità che ogni esistenza può offrire per cambiarlo, questo mondo orribile. Chi scrive si è trovato, leggendo questo libro, in profondo, salutare, imbarazzo. Ho spesso guardato con superficiale distacco il radicalismo lessicale con cui si esprime la parte più attiva della chiesa. Le tante splendide esperienze di sacerdoti che hanno saputo realmente porsi dalla parte degli ultimi mi sono spesso parse vanificate da una cultura dell’obbedienza che impediva di andare oltre lo sterile alleviare le sofferenze, senza produrre un cambiamento reale dell’esistente. Ma qui si chiama i lettori a coltivare e rilanciare l’utopia come unica alternativa realistica, a operare e mettersi in cammino per «inquietare, disturbare e far sognare».

La stessa scelta di chiamarsi Macondo, luogo di fusione di immaginario e reale da cui scaturisce come un flusso inarrestabile una perenne vitalità esprime pienamente la radicalità del suo messaggio.

Il viaggio dell’autore non è solo nel tempo (nove anni) e nello spazio (Praga, il Brasile, il Chiapas) ma prende corpo dal fermarsi di un piccolo dimenticato fatto di cronaca, come dal recuperare il senso di parole che altri hanno scritto. Galeano, Simone Weil, Capitini, Benjamin, Céline, la Bibbia ma anche il Talmud e il Popolo Vuh, citati non come pretesti per ricondurre tutto alla propria unica verità ma per riaffermare implicitamente la ricchezza delle pluralità delle culture.

Nella precarietà micidiale del presente, in una inutile fila ad un inutile ufficio di collocamento, leggo parole che hanno lo stesso effetto di un secchio di acqua gelata, di uno schiaffo. «Tentiamo di rompere l’isolamento che ci imprigiona e ci toglie ogni energia, ogni vitalità. Perché solo con un’irrazionale, istintiva ostinazione, chiudendo occhi ed orecchi di fronte alle lusinghe delle sirene di turno, potremo avere la forza di incrinare la crosta dorata di passività, che impedisce ai nostri sensi di vigilare».

Diviene inevitabile rimettersi in cammino.