L’inferno dei bambini

di Simoneschi Giovanni

Vedere la realtà
con i propri occhi

Nella narrativa il testimone è colui che racconta di un viaggio lontano: avvenimenti che gli ascoltatori non possono percepire direttamente, e che sono intrisi di voci confuse e di nebbia. Il suo racconto può cambiare molte cose nella testa degli ascoltatori, aggiungere fatti nuovi al solito circuito di nozioni e opinioni. Egli viene ascoltato con attenzione, come merita chi ha agito per vedere con i propri occhi la realtà.
Il libro di Mario Bertin, E decise di chiamarsi João, è proprio questo: una conoscenza diretta, la testimonianza di una condizione sociale terribile, poco conosciuta e dimenticata. Introno ad essa e al suo testimone ci accalchiamo come intorno a un narratore che racconta cose nuove ed interessanti.

Nel grigiore dell’asfalto
o in quello delle favelas

João è uno dei numerosi meninos de rua (ragazzi di strada) che vivono a Rio de Janeiro. Ragazzi neri, poveri, il cui orizzonte di vita comincia e finisce nel grigiore dell’asfalto o in quello delle favelas. Sono bambini e bambine, giovani adolescenti e ragazze, che subiscono esperienze la cui violenza sarebbe ad ogni età distruttiva.
Attraverso il libro di Bertin veniamo in contatto con frammenti significativi della loro vita: è sconcertante. Basta citare dal libro: “Sergio invece, che tutti chiamavano Serginho, era un ragazzo imprevedibile. Lungo e scuro. Lo prendevano scatti improvvisi di violenza che solo una doccia fredda riusciva a smorzare. […] Aveva avuto fastidi con la polizia. Perché si era rifiutato di rubare per loro. E allora lo avevano preso di mira. In una incursione a Cinelandia lo avevano preso e portato in caserma senza nessuna ragione. Gli avevano spento le sigarette sulla testa. Per dare un esempio agli altri. Per dare una dimostrazione che bisognava rigare diritto. Ne era uscito matto”.
Il racconto di Bertin consegna al nostro indignato stupore diversi fatti di questo genere: “Nel narcotraffico non si può sgarrare. Basta un piccolo sbaglio e ti fanno fuori. Prima però portano lo sventurato per le strade della favela. Lo trascinano in giro ammanettato. Non è raro che lo torturino. Perché l’ammonimento sia più efficace. Il posto delle esecuzioni è in cima al morro”.

La realtà supera la fantasia
solo nella crudeltà

Sembra strano, ma pare che la realtà superi la fantasia solo nella crudeltà: il libro è la testimonianza di un inferno in cui la disumanità è norma. Ma proprio per questo in esso ci sono momenti di dolce e viva poesia: è in tutto ciò che ancora sa di umano, nella lotta quotidiana che per l’umano viene compiuta in quei confini infernali.
È il caso della São Martinho, un’associazione di beneficenza che si occupa di questi ragazzi. Bertin descrive suor Maria: “Indossava una maglietta gialla con la scritta “Non vogliamo caramelle”. Cantava con gli occhi abbassati sotto gli occhiali spessi e scuri”.
E non c’è forse qualcosa di allegorico nel fatto che la sede della São Martinho sia collocata all’ombra dei pilastri di un grande acquedotto? Nel fatto che sia piccola davanti a quest’enormità di cemento armato? Piccola, ma tenace, capace di creare incontri e di offrire ai ragazzi di strada un’opportunità.

Un rapporto che veniva
chiamato adozione a distanza

Così infatti nasce questo libro: “Ho conosciuto João da una scheda. Un’associazione di beneficenza, chiamata São Martinho, si prendeva cura di lui, dopo che lui aveva accettato di non vivere più sulla strada e di frequentare la scuola. Ma, per rendere possibile la sua educazione […] c’era bisogno di qualcuno disposto a fornire il necessario aiuto economico, stabilendo con lui un rapporto che veniva chiamato adozione a distanza”.
Ma per alcuni dare denaro è troppo poco, perché sanno che riceveranno altrettanto poco. Così l’adozione a distanza diventa un viaggio a Rio de Janeiro. Ma la Rio che non si trova sui depliants turistici: un viaggio, non una vacanza. Un viaggio la cui meta è l’incontro con l’altro, con la sua diversità, ma anche con il potenziale di rinnovamento che egli porta in sé per noi.
Ecco una riflessione dell’autore durante il suo viaggio fra i meninos de rua: “Di fronte a queste persone nude [i ragazzi di strada] avvertiamo di essere interpellati sull’unico piano possibile, quello puramente umano. Queste persone si presentavano a noi ricche soltanto del proprio corpo, prive delle pur minime risorse economiche e culturali. E queste persone erano una folla. Una folla con la quale era possibile dialogare soltanto per mezzo di un linguaggio a sua volta spogliato, a sua volta scorticato, della nostra storia e della nostra cultura e ricondotto al balbettio di una umanità nuda e primordiale. Dove al centro rifioriva l’uomo nella sua essenzialità d’uomo, nei suoi diritti elementari di uomo, nelle sue esigenze insopprimibili di uomo. Era proprio con questa essenzialità che ci sentivamo costretti a misurarci come unica alternativa possibile alla violenza e al rifiuto”.

Abbiamo perso la strada

I meninos de rua sono senza risorse economiche e culturali, eppure depositari di una essenzialità che sgretola i punti forti della nostra civiltà: i ragazzi di strada sono il segno che abbiamo perso la strada.
Il libro di Mario Bertin è come il testimone di una staffetta, l’oggetto che un corridore consegna nella mano di un altro corridore, affinché lo consegni ad un altro corridore ancora. Ma in questa corsa non esiste un traguardo vicino. Quello lontano sembra a volta troppo lontano.
Eppure, cos’altro esiste come “alternativa possibile alla violenza e al rifiuto”?

E decise di chiamarsi João

“Si dice che i ragazzi di strada, o i bambini di strada, in Brasile siano più di sette milioni. C’è chi sostiene che si tratti di una stima esagerata. Eccessiva. Ma chi si mette in giro per la città non vede che loro. La loro miseria e i loro occhi immensi, pieni di luce e di sfida. Sui marciapiedi, nelle piazze, nella metropolitana e sotto i cavalcavia, sulle spiaggie, nella Rodoviaria. Quelli che qualcuno ha definito “i ragazzi di appartamento”, i ragazzi delle famiglie perbene, a Rio de Janeiro sembrano non esserci. Per scoprire che esistono, bisogna superare i cancelli sprangati dei collegi dei preti e delle scuole private, dove per essere ammessi si deve pagare una retta mensile uguale a tre quarti del salario che un operaio prende in un anno. Bisogna spiarli dietro le siepi fitte dei club e dei terreni da golf. Dai muri di cinta dei campi da gioco, dove, come tutti i ragazzi della loro età, corrono accaldati dietro a un pallone, ma sotto lo sguardo speciale, dolce e protettivo di una madonna di gesso avvolta in un manto di seta celeste. Di una madonna che allarga su di loro le sue braccia materne. Bianca come loro e bionda e coronata d’oro. Imperatrice, Regina apostolorum. Regina peccatorum. Regina. Fuorché di coloro che non hanno neanche il privilegio di sentirsi peccatori. Oppure bisogna scovarli dietro le sbarre lustre, dietro le vetrate dei palazzi di Copacabana, di Barra da Tijuca, degli altri quartieri residenziali, guardati giorno e notte dai custodi in divisa. O nelle ville protette da cani ringhiosi che un tempo venivano sguinzagliati alle calcagna degli schiavi fuggitivi e che erano addestrati ad agguantare senza uccidere. I ragazzi della società perbene si spostano soltanto con la macchina o nei pullman lucenti che ti puoi specchiare, con grandi scritte in oro – “Colégio Cristo Rei” oppure “Instituto São Bento” – che hanno l’aspetto un po’ funevre dei furgoni per il trasporto di valori da una banca all’altra, da un forziere all’altro. Non sono forse dei tesori quei rampolli? Ma per la strada non si vedono. Non si vedono mai. Non vedendoli, i meninos de rua non li possono neppure invidiare. Oppure odiare. E sarebbero addirittura indotti a dubitare della loro esistenza, se non fosse che in alcune circostanze sono invece costretti a temerli. A temerne il capriccio e la prepotenza. La prepotenza esercitata per capriccio. Per gioco.

“Nella scheda, in alto a sinistra, era incollata una foto di João. Una piccola foto quadrata. Una foto impacciata. Da tessera. Mostrava João con gli occhi sbarrati e con quel suo sorriso sghembo che, socchiudendogli la bocca sul lato sinistro, dava a tutta la faccia un aspetto malinconico e un’aria smarrita. I baffi, di una peluria leggera da adolescente, nella fotografia si distinguevano appena. Si confondevano con il colore bruno della pelle. Indossava una camicia a quadri che quasi sicuramente non era la sua. Che l’avesse messa per l’occasione lo tradiva il fatto che se l’era abbottonata in maniera sbagliata.
Il tuo aiuto a João non si deve esaurire nell’invio di una somma di denaro. Diceva il mio amico prete. L’aiuto che gli offri deve costituire l’occasione per un dialogo e un incontro. E per uno scambio reciproco. Ti accorgerai presto di ricevere più di quanto tu sia in grado di offrire.
Fu così che João entrò prepotentemente nella mia vita. E nella vita di Claudia. Invase le mie e le sue giornate. Senza che me ne accorgessi e per vie che non saprei ritrovare, né forse ripercorrere, le segnò della sua assenza. La sua assenza agiva, come poi avrei scoperto, in modo molto più profondo di quanto avrebbe potuto fare la sua stessa presenza.
Mi coglieva spesso un diffuso senso di colpevolezza e di disagio, al quale non era estranea la preoccupazione per una persona di cui, in ultima analisi, non sapevo quasi nulla. Di cui conoscevo solo lo sguardo spiritato e il sorriso sghembo. Che immaginavo come una persona un po’ malinconica. Mi successe come quando ci si innamora, che di lui avvertissi costantemente la presenza, anche quando, come avveniva per la maggior parte del tempo, pensavo ad altro. In qualche angolo recondito, lui c’era. C’era sotto forma di una piccola ansia. Di una piccola ansia non dichiarata. Appena percettibile, come è un respiro sospeso. Senza apparente motivo, di tanto in tanto, la sua immagine affiorava alla coscienza.
Mario Bertin

Mario Bertin, E decise di chiamarsi João,
Edizioni del Gruppo Abele, Torino 1996,
pp. 142, Lire 20.000.