Lettera di Monica.
È sempre di notte che ho voglia di scrivere, il buio porta paradossalmente chiarezza nella mia esperienza; il silenzio riordina incontri, parole, idee che si accavallano durante la giornata. Dovrei alzarmi, cogliere l’attimo e trascrivere velocemente l’intuizione che completa la ricerca di senso, l’emozione che arricchisce la mia affettività, che aiuta il cuore ad uscire da un “black out” più pericoloso di un infarto, del quale siamo spesso “portatori sani”.
Siamo in Grajaù; dopo cinque anni si è avverata la promessa di tornare in Brasile, molte cose sono cambiate: nel 1987 Carmelo ed io eravamo due giovani neo-laureati un po’ spiantati, alla ricerca della nostra indipendenza e di un senso da dare alla vita; ora siamo sposati, c’è Alessandro di tre anni e un altro bambino in arrivo. Abbiamo lasciato per due mesi i rispettivi lavori (medico ed insegnante) per restare fedeli alla promessa fatta a noi stessi di tornare per vivere ancora un po’ in questa terra e con questa gente.
Le modalità sono diverse: non più zaino sulle spalle, non più massacranti ore di “Omnibus” per la foresta, quasi potessero sfiancare la nostra irrequietezza, non più itinerari ma fermi nella casa di Macondo a dare il cambio a Maria che è tornata in Italia. Nell’87 abbiamo girato il Brasile, nel 92 il Brasile gira attorno a noi, entra ed esce da questa casa. Noi stiamo “fermi”, apriamo la porta, accogliamo chi arriva, organizziamo incontri, itinerari, rassicuriamo dallo stordimento del primo veloce impatto con la città, o, ancor peggio, dallo stordimento di mille preconcetti e paure che la gente porta con su, spesso più pesanti delle valigie che depone.
Ascoltiamo chi torna e cerca un confronto o anche uno sfogo perché si è spesso messi a dura prova (si torna a ridere e a piangere in Brasile) e i pensieri sono confusi e cercano un ordine rassicurante, schemi e dati statistici certi, che ci permettano di reimpossessarci di quel dominio interpretativo sulla realtà che tanto ci conforta e che immancabilmente in Brasile fa saltare.
Gli incontri con i brasiliani si fanno sempre più frequenti e, man mano che aumenta la confidenza e l’amicizia, cresce anche il desiderio di partecipare un po’ di più alla loro vita , di condividere le loro amarezze e i loro entusiasmi, di scambiare opinioni ed esperienze. Lunghe discussioni che durano fino a notte inoltrata animano un confronto cercato reciprocamente, tra un goccio di grappa Nardini o di “aguardente de cana”, e un bicchiere di succo (diluente!); ci si lascia sempre con un abraìço caloroso.
Nell’87 ci colpiva forse di più il “sensazionale”, la vertigine provocata dall’incontro con l’incredibilmente diverso e lontano (paesaggio, condizione di vita, umanità); cinque anni dopo siamo più attratti da ciò che ci può avvicinare: il lavoro quotidiano, la vita di tutti i giorni, meno sensazionale certo ma sempre alimentata da “garra”, grinta e determinazione.
Siamo molto contenti di essere qui, certo non è una grande avventura quella che stiamo vivendo, è un piccolo servizio che impegna la nostra famiglia e ci permette di verificare la nostra capacità di incontrare altre persone, di accogliere ed ascoltare.
…Ne è passata di acqua sotto i ponti: ho smesso i jeans e la maglietta dei grandi viaggi per un “vestitino” premaman; Carmelo si confronta impegnato con gli psichiatri brasiliani, sembra una persona “pacata e matura”, non c’è più l’irrequietezza di un tempo, ma nessuno dei due è poi molto cambiato finché riuscirò a vivere intensamente, ed animarsi e credere, a tornare a ridere e piangere di cuore in questo Brasile che incanta e opprime.