Le ragioni della responsabilità verso l’altro
Assistiamo oggi, da una parte, ad una crescente domanda di eticità (capace di regolare i comportamenti individuali, ma soprattutto i comportamenti politici) e di interventi sulle strutture dell’azione politica e della organizzazione economica e sociale in modo da renderle più attente ai diritti degli esclusi (minori, anziani, i vari Sud domestici e del mondo…). Assistiamo, dall’altra parte, al disseccarsi delle sorgenti tradizionali della moralità e della solidarietà (da intendersi nell’eccezione più vasta). Alle religioni, che paiono essere deboli luci di stelle lontane ormai precipitate (S.Quinzio), inservibili ad orientare le scelte collettive (in ambito culturale e politico), si contrappone il laico vuoto della politica per la politica e del gioco economico come suprema, ultima ragione dell’agire organizzato.
Questa irrisolta tensione non di rado la avvertiamo, in forma di interiore malessere, nelle difficoltà che quotidianamente incontriamo quando, annaspando, cerchiamo – se lo cerchiamo – un punto di riferimento per stabilire della bontà delle nostre azioni. Perché i criteri etici che ci hanno, forse troppo acriticamente, sostenuto nel passato, si dissolvono spesso lasciandosi inghiottire o dalla semplice legittimazione delle aspirazioni e degli ideali individuali o dalle regole della appartenenza.
Esiste ancora una luce che, traforando le nubi, rompa l’uniformità grigia del nostro mondo? Che metta ancora in evidenza le zone buie su quelle chiare? Che guidi perciò la nostra ricerca? Che ci dica, per esempio, che la sofferenza degli innocenti e le nuove forme di sterminio non possono essere tollerate? Che non possono diventare forme di spettacolo? Che ci dica se è la vita o la morte la fonte di valore (si veda la comunità gay americana che, per liberare la possibilità di esprimersi dell’amore, decide di non adottare alcuna precauzione nei rapporti sessuali)? Se l’uguaglianza o la disuguaglianza? Se la povertà o la ricchezza? Che ci dica se l’indifferenza è peccato?
Per rispondere a queste domande, nella moderna situazione di disincantamento del mondo, appare certamente inservibile l’etica delle intenzioni, cui possono essere ricondotte la tradizionale morale cristiana o le recenti teorie dell’utilitarismo angloamericano. Più suggestivo, invece, può essere riflettere sull’etica della responsabilità, prospettata da M.Weber, ma che ha conosciuto importanti riproposizioni recenti, particolarmente da parte di H.Jonas e di E.Lévinas.
È da quest’ultimo che vorrei prendere spunto per riflettere attorno ad un concetto di responsabilità intesa come fondazione stessa della soggettività dell’uomo. E cioè di una responsabilità che, costituendoci come soggetti, ci impegna in modo radicale, fondamentale nei confronti dell’altro perché da esso dipende la nostra stessa possibilità di esistere.
Se l’altro da noi è indispensabile al nostro esserci, allora nei suoi confronti si configura in noi una responsabilità che ha l’estensione stessa di ciò che noi siamo, che ci coinvolge in ogni piega recondita del nostro io. Che influenza ogni espressione del nostro essere (l’intelligenza, l’emotività, l’azione, …).
È dentro questi vasti orizzonti che acquista il suo senso pieno l’intuizione di Macondo come associazione che supera il tradizionale rapporto di soccorso e di cooperazione per offrirsi come occasione di incontro e di comunicazione.
L’essere solitario non è
Esse est interesse dice Lévinas. L’essere è interessere. L’essere non può che essere-tra. Essere sospeso e rivolto verso l’altro. L’essere solitario non è. L’essere è esserci. L’essere è nel momento in cui si raffronta all’altro. In cui sta di fronte all’altro. Aperto a lui. Nel momento in cui l’altro lo invade. E così si scopre attivo. Sta nello stare fuori di sé (ex-stasi).
L’essere è essenzialmente comunicazione.
Come vedere e veduto sono inseparabili, come conoscere e conosciuto sono inseparabili, come il vedere ha la forma del veduto e come la conoscenza ha la forma del conosciuto, così l’essere ha la forma dell’altro da sé. Io non sono se non in quanto c’è l’altro da me. E ho il suo volto. Essere è essere dall’altro e, conseguentemente, per l’altro.
Conosco me soltanto conoscendo l’altro.
In questo rapporto ontologico nasce la mia responsabilità verso l’altro. Di ciascuno verso l’altro da sé. Responsabilità fondamentale perché impiantata sulle fondamenta del mio essere al mondo. Di essere attivo nel mondo.
Tale responsabilità può drammatizzarsi negli egoismi in lotta gli uni contro gli altri, oppure diventare pazienza. Capacità di accogliere l’altro. Di mettersi a suo servizio. Riconoscere la dipendenza da lui. Atteggiamento pre-politico, capace di far fiorire una politica intesa come servizio. Come interessamento gratuito e grato. Grato di poter dare.
Meraviglioso rovesciamento delle posizioni in cui l’oggetto del rapporto si fa soggetto. In cui è l’oggetto fatto soggetto a dettare le regole del gioco. In cui il soggetto tradizionale si fa obbediente. Si fa ostaggio dell’altro.
L’inter-essere esige da noi il disinteresse. La gratuità è esigenza scritta nel mondo dell’essere. Non abbiamo più bisogno di categorie come bene e male. Come buono e cattivo. Come premio e castigo. Non abbiamo più bisogno di cieli. O di vita eterna. Il cielo è la gioia che esplode nell’apertura all’altro. È gioia presente dell’essere paziente. Dell’essere che patisce l’altro. Non c’è, insomma, più bisogno di legge. La legge è l’altro che ci fa essere. Sono gli uomini e le cose che domandano di essere accolti per quello che sono. E diventano così il superamento di ogni legge. Bruciano la necessità della legge.
La vera legge diviene così l’altro con la sua individualità. Non un altro generico e astratto. Ma l’altro unico e irripetibile. Ed è questo altro unico e irripetibile che chiede da me una risposta, come lui, unica e irripetibile. Che la legge non è in grado di prevedere.
Ci salva la passione
Impossibilità di una legge? No. Piuttosto incongruenza di far derivare il nostro interessamento per l’altro da una legge o da una idea. Le idee non salvano. Sono fredde e siderali. A salvare è soltanto la passione (la possibilità di patire-accogliere l’altro). Come l’essere che può rendersi visibile differenziandosi. Che può manifestarsi in una misteriosa combinazione di identità e di differenza: la differenza dell’identico.
L’essere – abbiamo detto – è fecondo quando si espone all’oltraggio dell’altro. Come donna esposta all’oltraggio dell’uomo. Come specchio violato dall’immagine. L’essere esprime il massimo della sua forza nel massimo della sua vulnerabilità. La luce ha la dimensione del buio che invade. La capacità di essere è la capacità della nostra pazienza.
La nostra azione, dunque, non è iniziativa individuale. È con-vivialità. Che domanda disponibilità, accoglienza, ascolto. La responsabilità verso l’altro non è frutto di una intenzione, di una decisione. La responsabilità viene prima di qualsiasi decisione o impegno. E viene dall’altro. Non da me. Non dal mio buio. Chi perde la propria vita la salverà. Chi salva la propria vita la perderà. In tal modo, chi vuol trovare se stesso deve farsi ostaggio dell’altro. Solo conosce se stesso chi conosce l’altro. Solo ama se stesso chi ama l’altro. Narciso si trova e si perde nella sua immagine. È nel trascendersi che il sé si trova.
Il sé è fuori di sé.
Trascendenza è anche inabissamento dentro di sé.
Abbiamo in noi la vita eterna, dice Giovanni nella sua prima lettera, quando amiamo l’altro. Infatti la mia risposta all’infinito (all’essere) non è tematizzabile che come risposta all’altro. L’altro è la voce dell’infinito. Concreta espressione della sua domanda.
La mia unica responsabilità, dunque, è nei confronti dell’altro (Matteo, 25. Nel giorno del giudizio Gesù dirà: avevo fame e mi hai dato da mangiare…). «La mia prima formazione – ha dichiarato recentemente E.Galeano – fu profondamente cattolica, poi tra i diciotto e i venticinque anni, ho perso Dio e ho iniziato a cercarlo nel mondo, negli altri. A volte l’ho trovato, altre volte no».
Non solo noi conosciamo noi stessi nell’altro e – come dire? – dall’altro, ma l’infinito (l’essere, dio) è attingibile solo nell’altro. È nell’altro che posso scoprire la mia verità. E la strada della mia giustificazione. L’inferno sono gli altri, disse Sartre. Ma anche il cielo sono gli altri.
Il paradosso, dice Lévinas, è che da questa responsabilità nasce per me un obbligo che non prende inizio da me. La regola viene da fuori di me. La domanda di obbedienza è antecedente la formazione dell’imperativo etico. È nella cosa. Si prospetta allora davanti a noi un quadro di obbedienza universale, che Francesco d’Assisi aveva colto bene quando diceva ai suoi frati di obbedire agli animali.
Non c’è dunque un imperativo che si proponga ad una soggettività compiuta. E cioè a un sé già compiutamente cosciente di sé. La mia soggettività piuttosto si forma con l’imperativo che sorge dall’esistenza dell’altro,. In qualche modo, dunque, il mio io – pur in una identità impossibile (ancora una identità differente) – passa nell’altro. E allora io devo fare mio l’altro, in una terrena (e celeste insieme) transustanziazione. Fare mio il suo volto, la sua sofferenza, la sua domanda di dignità e di giustizia, la sua gioia e il suo dolore. E da questo terreno formulare la mia risposta.