Le funzioni della pena
Retribuzione, rieducazione o riparazione?
Le funzioni della pena
È tempo di indulto: il fatto è ormai noto, le vicende dell’approvazione parlamentare della relativa legge lo sono altrettanto, così come risultano conosciute le voci contrastanti del dibattito politico che ad esso hanno condotto.
L’occasione, al di là della valutazione contingente sull’opportunità di una simile opzione, risulta quanto mai favorevole per riproporre all’attenzione generale la consueta e tradizionale domanda: a che cosa serve la pena? Per i non giuristi una simile questione evoca suggestioni tanto complesse quanto semplicistiche, sovente connesse a sentimenti di diffusa e quotidiana percezione.
Per un verso, a seconda della gravità del delitto e dell’allarme sociale che la sua commissione suscita, si evocano «punizioni» più o meno esemplari, e si richiedono, da parte dello Stato, prontezza ed efficienza esecutive; per altro verso, però, soprattutto in rapporto a fenomeni criminosi derivanti da situazioni di degrado socio-economico, si esige una peculiare considerazione della personalità del reo e delle ragioni che lo hanno condotto a delinquere, nella prospettiva, quanto meno, di un’adeguata applicazione della sanzione prevista per legge.
Per i giuristi, viceversa, la questione sulla funzione della pena richiama dilemmi di più difficile decifrazione, in una sorta di discussione pressoché continua e ininterrotta, che anche oggi coinvolge, in modo interdisciplinare, studiosi del diritto e della procedura penale, costituzionalisti, filosofi del diritto, magistrati, avvocati.
A che cosa serve, quindi, la pena? Serve, principalmente, a compensare e retribuire il «male» commesso, ovvero assolve anche a una funzione di prevenzione? E in quest’ultimo caso, la funzione di prevenzione che dev’essere prediletta riguarda il singolo delinquente, ovvero attiene alla dimostrazione pubblica, in chiave stigmatizzante, di ciò che potrebbe accadere a chi volesse nuovamente violare la legge penale? Se da un lato è vero che tutti gli autori sono sostanzialmente d’accordo nel riconoscere alla pena, contestualmente, ognuna delle descritte funzioni (sia pur in diversa misura, a seconda della ricostruzione prescelta), dall’altro è altrettanto vero che non è ancora del tutto chiara e unanimemente condivisa neanche l’interpretazione di quanto stabilisce la nostra Costituzione, il cui articolo 27 ricorda testualmente che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Inoltre, pur nella precisazione comune che quest’ultima disposizione obbliga la Repubblica a conferire all’esecuzione della pena una finalità comunque riabilitativa, in prospettiva di un positivo reinserimento sociale del reo, si deve riconoscere che vi sono ancora accesi contrasti sia per quanto riguarda la definizione dell’estensione e dello spazio del contenuto più spiccatamente e originariamente retributivo della pena, sia per ciò che concerne il ruolo dello Stato e delle sue istituzioni in relazione al procedimento di applicazione della pena medesima e ai reciproci rapporti tra vittima e colpevole.
Lo Stato e la pena
Questo secondo profilo sembra il più interessante, e ciò in quanto, proprio con riguardo ad esso, si cerca di dare una risposta anche sul piano del primo aspetto: in altre parole, il ruolo dell’intervento dello Stato e, per esso, degli organi giurisdizionali o amministrativi che si occupano della pratica applicazione delle pene, è destinato, in qualche modo, ad assottigliarsi laddove si ritenga che la finalità retributiva (la pena come attribuzione di sofferenza per il «male» compiuto) sia in qualche modo prevalente su quella rieducativa (la pena come occasione e strumento di risocializzazione); ciò nonostante, tale ruolo tende nuovamente ad espandersi nell’ipotesi in cui, pur ribadendo la prevalenza della funzione retributiva, si affermi l’inevitabilità di un procedimento di compresente «riparazione», eventualmente nell’ottica di facilitare e guidare, oltre che rendere effettivi, a tutto campo, sia lo stesso scopo della retribuzione sia il medesimo svolgimento delle attività rieducative in senso lato.
Con riferimento al dibattito circa la finalità di «riparazione», e fatta salva l’idea che il nucleo retributivo della pena costituisca in ogni caso un momento di per sé ineliminabile (anche a garanzia dell’integrità della soggettività del colpevole), si deve rammentare che esso costituisce probabilmente la frontiera più interessante della riflessione attuale.
Si tratta, infatti, non solo di riflettere sull’idea che la pena presenti un’originaria funzione spiccatamente «riparatoria», ossia di meditare sul fatto che tramite la pena si voglia, in prima istanza, rimediare alla «rottura» del rapporto intersoggettivo violato dal reato. Si tratta, in buona sostanza, di dare ingresso a forme nuove di «giustizia», ossia di conferire all’esecuzione della pena una struttura quasi dialogica, con ciò richiamando sia l’importanza del contatto tra vittima e colpevole, sia il valore decisivo della connessa attività di mediazione che il giudice e l’amministrazione carceraria dovrebbero svolgere.
Non è un caso, d’altra parte, che di una simile prospettiva si sia ampiamente discusso con riferimento al diritto penale minorile, ambito nel quale essa ha trovato il terreno più fertile, specialmente in funzione di promozione di forme di responsabilizzazione nei giovani autori di reato.
È evidente che, in quest’ultimo frangente, l’agevolazione di forme di ravvicinamento e di «condivisione» tra vittima e colpevole può facilitare la migliore e piena compensazione dell’offesa subita, permettendo cioè alla vittima di ottenere anche il riconoscimento materiale e morale delle proprie ragioni, con superamento delle residue e potenziali attitudini auto-difensive di cui essa si trova naturalmente titolare.
Ma è parimenti chiaro che il contatto con la vittima offrirebbe anche al colpevole l’occasione di avviarsi concretamente verso una reale e personale attività di risocializzazione e di maturazione: la coscienza dell’errore commesso e il «perdono» della vittima rappresentano i primi stadi di un successivo e più lungo percorso rieducativo, i cui obiettivi, sia finali sia interinali, rischierebbero di essere altrimenti vuoti e decontestualizzati.
Le innovazioni maggiori, tuttavia, si verificano sul piano del ruolo del giudice e dell’amministrazione della giustizia.
L’esercizio di un’attività di «mediazione» consente, innanzitutto, di ridare significato operativo e materiale al principio della terzietà del giudice, e ciò anche, per l’appunto, in sede di svolgimento delle funzioni di sorveglianza sul procedimento di esecuzione della pena. Anzi, in questa prospettiva, il procedimento esecutivo riacquista quel carattere «processuale» (in senso tecnico) che gli interpreti gli hanno da sempre rivendicato.
In secondo luogo, poi, un tale ruolo permette anche di strutturare quest’ultimo procedimento in termini maggiormente «consapevoli», attribuendosi al reo e alla vittima dei veri e propri poteri / doveri di partecipazione e di rappresentazione, con uno sviluppo che sarebbe, pertanto, del tutto coerente con il carattere «processuale» or ora rammentato.
Le tendenze della disciplina
Occorre considerare, del resto, che l’evoluzione così illustrata costituisce una delle possibili e verosimili chiavi di lettura anche delle più attuali tendenze della disciplina positiva.
Si pensi, ad esempio, alla circostanza che, per quanto riguarda i reati ricompresi nella competenza penale del giudice di pace (la cd. «microconflittualità»), il comportamento riparatorio del responsabile del reato, qualora conduca a una totale eliminazione delle conseguenze dello stesso, è idoneo a escludere la stessa punibilità del fatto, o, meglio, e più tecnicamente, a estinguere addirittura il reato, come se esso non vi fosse mai stato.
Sebbene si debba riscontrare che, in quest’ultimo esempio, la normativa lasci al giudice un’eccessiva discrezionalità, nell’esercizio della quale egli si ritrova costretto ad applicare considerazioni di natura retributiva e/o preventiva che sono tuttavia estranee alla logica riparatoria in senso stretto, non si può non notare che il principio riparatorio, comunque affermato dalla legge, costituisce un ulteriore passo per il riconoscimento maggiormente diffuso delle istanze della «mediazione».
Si consideri, ad ogni modo, che le trasformazioni in atto non presentano soltanto luci, ma risultano oscurate anche da potenziali ombre, soprattutto nell’ottica di una loro incontrollata generalizzazione.
Vi sono reati, ad esempio, che mal sopportano una simile concezione, e ciò si verifica ogni qual volta si tratti di crimini nei quali si possa riscontrare la presenza di un colpevole «forte» e di una vittima «debole» (frodi alimentari, reati finanziari, attentati all’ambiente, usura etc.).
In questi contesti è ben possibile che la via della riparazione – in particolare se «malintesa», ossia se intesa soltanto nel senso della «riparazione del danno» anziché nel senso della «riparazione del fatto» – conduca a una facile «liberazione» del reo, cioè del soggetto più «ricco» e maggiormente capace di «investire».
Ma si consideri, infine, che la lettura «riparatoria» esige una consapevolezza, in capo al giudice, ben diversa da quella sinora riscontrabile nella prassi, spesso improntata ad interpretazioni fin troppo soggettive e propulsive, ovvero, all’opposto, piegata a sterili schematismi burocratici.
L’attività di «mediazione» esige, infatti, un difficile bilanciamento tra un ruolo complesso di attenta equidistanza tra vittima e colpevole e l’altrettanto delicata posizione di chi si trova, di fronte alla generalità dei cittadini, ad applicare una «pena» adeguata e a garantirne un’efficace esecuzione.