Lampi rossi e lampi azzurri
«Io non sono nessuno! e tu chi sei?
Nessuno pure tu? Allora siamo in due, ma non lo dire.
Potrebbero bandirci e tu lo sai!
Che grande noia, essere qualcuno!
Quanto volgare dire il tuo nome
per tutto giugno come fa la rana.
Ad un pantano che ti ammira!»
(Emily Dickinson)
«Segno non è l’abbondante raccolto,
segno sono i frutti fuori stagione».
(A. Bodrato)
Milano, stazione centrale
Scendendo a Milano, alla stazione centrale, la vidi: i piedi piagati, nudi, che cercava di scrostare dagli ultimi brandelli di calze, mescolati al sudiciume e al sangue raggrumato, i bianchi capelli in disordine, un abito vecchio. Il fiume della folla frettolosa, indifferente, le scorreva accanto senza vederla. Ruppe in singhiozzi quando mi fermai a cingerle le spalle, mettendole qualche banconota in grembo. Che fare? Quella donna aveva bisogno di soccorso immediato, bisognava andare in farmacia, prendere delle bende e dei disinfettanti per fasciare i piedi, un buon paio di pantofole morbide per proteggerli, farle bere e mangiare qualcosa di riconfortante, accompagnarla poi ad un posto di soccorso, non lasciarla abbandonata a se stessa, affidarla a qualcuno che se ne prendesse cura almeno per qualche giorno…
Da quanto tempo si trascinava così, povero rottame alla deriva? Quale gradinata di cadute doveva aver disceso per ridursi in condizioni così disperate, ai margini della città opulenta, dalle vetrine scintillanti di superfluità odiosamente oscene in contrasto con tanta miseria…
Ma eravamo già in ritardo, accompagnavo un amico malato; il grande professionista che gli aveva concesso un appuntamento per consultazione urgente non avrebbe aspettato, poco contavano per lui le lunghe ore di treno espressamente fatte per l’importante colloquio. Ci sbrigheremo presto, sperai, la troveremo al ritorno. Al ritorno, ancor più velocemente del previsto (il grande professionista aveva già altra gente in anticamera), la povera randagia non c’era più. Mi sentii un verme… Nel frastuono delle rotaie s’ingigantiva, sordo e soffocante, il tonfo del cuore.
Pensiero, azione e incoerenza
Faccio parte di coloro che sentono l’incoerenza tra pensiero ed azione, tra teoria e pratica, e sento il disagio che ne deriva. Avverto l’insoddisfazione che nasce dal ritmo di vita in cui siamo immersi e vorrei essere diverso, andare incontro all’ultimo che incrocio sulla mia strada…
«Ogni donna è tua sorella» mi sussurrava l’amico seduto a fianco. «È tua madre. Se non rispetti in ogni donna l’immagine della Madre, di tua madre, l’identità altra che è in lei, come potrai rispettare te stesso?». È vero: spesso dà gioia chi non sa di darla, anche nei giorni in cui è afflitto. La gioia non è un obbligo, ma un dono. Dà gioia agli altri chi non perde e non spreca quello che passa nel vento, ma la raccoglie e la conserva dentro. Un vero sorriso è l’anima sul viso, ma vedere un’anima impegna, coinvolge. Allora ci difendiamo col grugno.
A Bologna con la memoria
Mi stanno scorrendo davanti le immagini dell’assemblea generale di Macondo a Bologna. Osservo come sono sempre le cose più importanti che non vengono dette. Se infatti entriamo in dialogo con l’altro, non ci è concesso di pensare prima a quello che dobbiamo credere. Se siamo testimonianza della nostra fede, non dobbiamo difendere noi stessi, né i nostri interessi personali, per quanto sacri possano sembrare; dobbiamo fare come gli uccelli del cielo: cantano e volano e non difendono la loro musica o la loro bellezza. Se dialoghiamo con qualcuno, guardiamo prima al nostro interlocutore come un’esperienza rivelatrice, così come guarderemmo o dovremmo guardare i gigli del campo. Beati noi, se non ci sentiamo autosufficienti, mentre dialoghiamo.
Lampi bianchi
Al mio intervento ho voluto dare un titolo: «Lampi rossi o lampi azzurri?». Perché? I lampi a volte sono bianchi. Sono molto lontani. Non fanno rumore. Il tuono non si sente o solo molto dopo, attutito. Non fanno paura. Non minacciano. È la serenità del pensiero teorico. È la meditazione filosofica. Si toccano i principi. Per coloro che li intendono sono efficaci, ma c’è ancora una grande distanza per arrivare alla pratica. Gli intellettuali vivono tranquilli. Altre volte i lampi sono rossi.Ci toccano più da vicino. Fanno rumore, fin troppo a volte. Spaventano. Poi molti nemmeno cadono. La nostra società, nel bene o nel male, che lo voglia o no, è piena di paura o di speranza nei confronti del Gratuito, dell’incontro gratuito. Alcuni se ne vorrebbero sbarazzare e non sanno come. Altri si dichiarano indifferenti, ma nel profondo non riescono ad esserlo. Altri vorrebbero farla rivivere questa gratuità, ma si muovono senza orientamento.
Lampi azzurri
L’attesa
I lampi qualche volta sono azzurri. Sono molto in alto. Questi lampi non cadono sulla terra, almeno non sulla “nostra” terra. Forse un giorno scenderanno e quei problemi d’incontro tra popoli, di tradizioni culturali e religiose non ci potranno più lasciare indifferenti. Il mondo delle alture sta lampeggiando. Isolamenti artificiali non servono più. Il problema dell’altro comincia a convertirsi nel nostro interrogativo. È andata avanti, per Macondo, quella ricerca che Arturo Paoli delinea quale «percorso della ragione che torna ad abitare nel corpo prima, nella natura poi, e infine nell’umanità»? La “rete” di Macondo è leggera, leggera, ma tiene. Tiene anche la vita della Casa di Rio de Janeiro, nascosta più che mai nel periodo estivo dal fogliame folto degli alberi che l’abbracciano. Resiste, grazie a Dio, un sottile filo di vita che la ricollega ad una memoria ricca di eventi, di coraggio umano, di fede.
Con lo sguardo attento
Ma questa memoria alimenta prospettive? L’interrogativo non è superfluo. Essere giudicati “buoni e bravi”è cosa che fa sempre piacere. E, certamente, per le persone che si riparano all’ombra delle nostre attenzioni, è importante che le nostre energie rimangano solide, anche con l’avanzare dell’età. Per anni abbiamo arato il campo, ma oggi possiamo dire che una pianta è nata. Tra i rovi forse, ma questo dà ragione delle serenità di fondo che oggi esprimiamo, mantenendo aperta la speranza. L’interrogativo però si propone di riflettere su una “continuità” che non è esattamente quella che s’intende sottolineare quando a chi ce lo chiede si dice che «le cose vanno avanti». Perché nel rotolare di giorni, uno dopo l’altro, può essere che si inneschino derive anche di forte intensità che, sulla superficie dello stesso mare, portano insensibilmente su rotte assai diverse da quelle di partenza. Una continuità apparente che può trarre in inganno coloro che non sanno che la continuità tra memoria e prospettive si alimenta negli strati profondi della vita, laddove non conta tanto che “le cose” vadano avanti, quanto che vivano le ricerche, le lotte, i sogni. Questa “continuità” può essere anche molto… discontinua!
Il cammino dell’impossibile
Il lavoro di questi anni ci ha permesso di verificare quanto sia importante una puntuale attenzione alla persona. Che tale si scopre nella possibilità concreta di stare insieme agli altri con percorsi di autonomia, anche minimali, purché effettivi. L’unica cosa che, in fondo, vale la pena di affrontare è l’impossibile. Già le macchine fanno, e meglio di noi, le cose che appartengono all’ordine del possibile. L’uomo è l’arte e il cammino dell’impossibile. Non ci inganniamo: l’impossibile è impossibile. A tutti i cristiani io direi: perché l’impossibile è stato affrontato, Dio si è fatto uomo e l’uomo si fa Dio. Tentare di definire quale debba essere la spiritualità del nostro tempo è affrontare l’impossibile. Ecco il paradosso: la soluzione non si trova nella risposta, ma nella domanda stessa. Vale a dire, nella stessa formulazione della domanda e nel sentire la necessità di questa spiritualità, malgrado non si possa dare risposta. «Il mistero dell’infinito è scritto sulla mia piccola fronte», scriveva Tagore. Siamo indubbiamente fragmentati e ci rendiamo conto, soprattutto in Occidente, che ci troviamo in un vicolo cieco, donde è necessario uscire. Il numero delle persone depresse aumenta ogni giorno: diminuisce la gioia, c’è crisi d’identità. E, quel che è peggio, non è possibile descrivere tale situazione, perché in sé comporta l’impossibilità a descriverla.
Come uscire dalla trappola
Per uscirne intravedo due strade. La prima: tornare alle radici, alle nostre tradizioni. Senza queste radici emerge la superficialità che non porta da nessuna parte. La seconda: considerare la situazione attuale dell’umanità: un grande bisogno di giustizia e di interiorità, di libertà e di quiete, di dignità e di meditazione. Nessuna religione, nessuna civiltà, nessuna cultura ha la forza sufficiente o è in grado di dare all’uomo la risposta soddisfacente: gli uni hanno bisogno degli altri. Non si può pretendere che la soluzione per l’insieme dell’umanità, d’ora in poi, possa venire da un’unica fonte. Occorre sforzarsi perché avvenga una mutua fecondazione tra le differenti tradizioni umane. Tutte sono necessarie per far fronte alla situazione attuale. Tutti siamo portati verso lo stesso destino. La fonte del nostro sogno, del nostro cammino e del nostro agire, la spiritualità di Macondo è perciò la responsabilità.
La priorità dell’altro
La vera responsabilità esiste quando ciascuno risponde dell’altro. La cultura biblica, del resto, si compendia con «la priorità dell’altro sull’io». Dio, infatti, lo si incontra, lo si riconosce, quando si assume la responsabilità dei poveri, è visibile nei loro volti: non assistendoli solamente, ma liberandoli dalla causa della loro povertà. L’io deve percepire il tu come identico a sé. Dar retta alla voce che ti dice: «Questo sei tu». Cosa ci proponiamo? Condividere la situazione di tutti coloro che, nella loro microstoria, sono portatori di un’idea molto grande, tale da sfidare le regole della macrostoria. La scelta è quella tra vivere questo stato di sproporzione come minoranzalievito (quella che trova in sé la giustificazione profonda, naturale, totale di quello che si è), oppure come pretesa (è quella che, in un modo o nell’altro, dipende da un riconoscimento esterno, da un’istanza non necessariamente identificata, per vivere con pienezza di significato). Essere portatori nella microstoria di una grande idea coincide con l’essere membri di un popolo che ha la caratteristica dell’esilio, e perciò della nostalgia. Questo popolo di esiliati o di guerriglieri di una lotta di liberazione è quello che fa la storia nel suo significato più essenziale, perché ne rivela il senso: cioè l’incompiutezza ed insieme il rischio di cancellare il cammino in avanti. Anche se li rimangia, la storia sarebbe deserta senza questi esiliati, portatori di nostalgia… «perché essi dicono la storia che vorremmo vivere». È la frontiera, il luogo del margine, è lì che si realizza la storia.
L’appello di un mondo in agonia
«L’utopia è la sola risposta all’appello di un mondo in agonia: annuncia un altro mondo, possibile casa per tutti, spazio aperto d’incontro dei popoli liberi, uguali nei diritti, diversi nei volti, diversi per le voci. Più che utopia bisognerebbe chiamarla speranza, perché generata assieme dall’esperienza e dall’immaginazione. È la realtà che ci dimostra come la fame non è inevitabile, né l’umiliazione un destino; che la sterilità degli oppressori non impedisce o meglio non implica l’impotenza creatrice degli oppressi e che la responsabilità della storia non è in mano degli dei o dei loro bugiardi inventori. La storia può e deve essere fatta dal di dentro e dal basso, e non dall’esterno e dall’alto». [Eduardo Galeano] Gli schiavi negri, strappati dalla costa occidentale dell’Africa, non portarono in America solo le loro braccia. Portarono la loro cultura, i loro codici culturali di identità e di comunicazione. Poco o nulla sappiamo di questi codici culturali che difesero gli schiavi da un sistema che voleva convertirli in oggetti. Ma sappiamo per lo meno che molti di questi schiavi credevano… e i loro nipoti ancora credono nelle loro memorie.
Dove vai, Macondo?
Quale prospettiva si apre per Macondo? Per le proposte operative dell’Associazione, il suo percorso educativo, le sue iniziative pratiche, vi rimando al paziente e garbato “rendiconto” di Gaetano. A me preme invitarvi tutti a riprendere il cammino con forte consapevolezza. Uscire fuori da una logica di conservazione dell’esistente che tale non è perché ogni giorno i venti della vita (fortunatamente!) erodono la base di ogni realtà che si pietrifica nella memoria da conservare. Quale prospettiva se non quella di riscoprire la Fraternità? Ciò implica riconoscere la diversità di ogni individuo e nel contempo il significato della comunità come luogo “cooperativo”, dove il conflitto non degenera in violenza distruttiva. Le molte tribù che popolano le metropoli non hanno ancora trovato una “piazza” dove incontrarsi. «Ma il futuro dice U. Galimberti è in questo incontro, dove il diritto di appartenenza (fraternità) possa conciliarsi con i diritti di uguaglianza e libertà».
Babele, Gerusalemme
È una città non votata al fallimento a causa delle diversità divenute inconciliabili (torre di Babele), ma capace di convivialità delle differenze (la Gerusalemme della Pentecoste), dove ogni uomo e tutti possono trovare spazio per la propria personale realizzazione, cooperando per le realizzazioni di ogni altro fratello. Lasciamoci toccare dalla vita, anche se la sua mano a volte ci stringe fino a farci urlare dal dolore, dalla paura, dalla solitudine. La stretta di mano della vita ha sempre comunque un calore comunicativo che invano cerchiamo nell’astrazione, nella dilatazione di sé, nel sogno.
Per non cadere nel rito
La nostra sfida è il tentativo di smascherare le false certezze e di dire una “parola libera” sui valori autentici della vita. Perché Macondo non sia solo la casa dove abitano due scapoli, i meninos de rua non siano un “comodo” mantello di assistenza per difendersi dalla realtà, gli impegni quotidiani non siano i segni devozionali o un dover essere che ha sbiadito nell’intenzionalità le sue ragioni, dobbiamo stringere di nuovo i fili di cammini solidali perché le persone possano incontrare se stesse sulle trame sottili di concreti tessuti sociali. Siamo come “migratori” senza patria, ci spostiamo sul filo di brezze inquiete, in ricerche che non conoscono stagioni.
Pove del Grappa, gennaio 1997