La virtù del dubbio
Riflessioni sull’ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky
Il dubbio e il contesto
C’è bisogno di dubitare, oggi? Molti risponderebbero negativamente.
Si tratta di una facile previsione, poiché è sufficiente constatare il contegno che comunemente si tiene di fronte alle numerose questioni che animano l’opinione pubblica: ciascuno ostenta la propria individuale certezza, spesso non meditata, spesso acquisita soltanto de relato, sulla base, cioè, delle suggestioni del momento o della posizione, a sua volta più o meno responsabile, dell’articolista di turno o del rappresentante del partito o movimento cui si ritiene di volta in volta di aderire.
Eppure, non di rado i temi oggetto della discussione sono delicati, e gli argomenti con cui vengono affrontati richiederebbero una doverosa cautela. Di esempi recenti se ne possono annoverare numerosissimi: il dibattito sulla pena di morte e il suo rapporto con il lancio, quasi paradossalmente «alternativo», della cd. «moratoria sull’aborto»; le tensioni correlate all’applicazione della disciplina legislativa, a sua volta contestata da più tribunali, sulla fecondazione assistita; la costante re-interpretazione diffusa del principio di laicità dello Stato, che lungi dal costituire un riferimento condiviso assume le forme di un’opera creativa dai tanti e così diversi autori; le posizioni unilaterali e reciprocamente indifferenti sull’immigrazione e sulla diversità culturale e/o di genere; la battaglia sull’eutanasia o sul testamento biologico, così come quella sui diritti degli omosessuali.
La rassegna potrebbe continuare a lungo. Ma per ciò che ci interessa rilevare, essa è più che sufficiente, giacché ci pone di fronte a differenti domande sui tempi, i modi e i contenuti di un intervento pubblico che vorremmo chiaro, incontestabile, possibilmente semplice e stabile; di un intervento, quindi, che auspichiamo essere risolutivo, nonché conforme, ovviamente, al nostro punto di vista! E ciò perché, per l’appunto, abbiamo bisogno di sicurezze nelle quali riconoscerci, o meglio, nelle quali pacare le nostre ansie, sovente soltanto personali o egoistiche, al fine di conquistare, cioè, un campo ideale nel quale sentirci, a torto o a ragione, veri sovrani. Che bisogno c’è, dunque, di dubitare?
A ben vedere, e se riflettiamo con maggiore attenzione, la domanda è mal posta: nessuno sente il bisogno di dubitare; forse, però, è meglio chiedersi se sia opportuno dubitare, ovvero se l’attuale contesto della vita pubblica richieda da parte nostra una consapevole tolleranza argomentativa, per evitare, cioè, che la ricerca forzata dell’unica volontà collettiva finisca per frustrare la «sovranità» individuale di cui quella stessa volontà dovrebbe essere ancella e tutrice, imponendo con ciò soluzioni irragionevoli e irrispettose del pluralismo cui dovrebbe essere informata la nostra società.
Il pluralismo e la mitezza
Uno spunto in tal senso è offerto dall’ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto (a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari, 2007), che ci impone, ancora una volta, di riflettere, in definitiva, sui rischi della contraddizione da ultimo segnalata e sulla necessità di trarre utili indicazioni, in proposito, dalla riflessione sulla Costituzione e i suoi principi fondamentali, di cui proprio quest’anno si celebra il 60° anniversario (1948-2008).
Se è vero che «la costituzione è ciò che un popolo si dà nel momento in cui è sobrio, a valere per il tempo in cui sarà ebbro», possiamo subito comprenderne l’estrema importanza, soprattutto nel clima di confusione e di «certezze soggettive» di cui si è detto poc’anzi: «Lo Stato costituzionale del nostro tempo è quello che si costituisce a partire dal pluralismo sociale e dalle numerose istanze, ideali e materiali, che esso contiene e che tendono a una sintesi attraverso un patto costituzionale. La costituzione è il patto, nel quale coesistono due aspetti: il progetto della convivenza comune e la garanzia delle posizioni particolari».
Il dubbio, quindi, lungi dal costituire una condizione patologica, corrisponde pienamente alla mitezza che il dibattito pubblico dovrebbe assumere, nel rispetto, quindi, di un dialogo pluralista che è strumentale ad assicurare, di per sé, sia il chiarimento di ogni reciproca posizione, sia il successivo consenso sulla soluzione da seguire di volta in volta. Il dubbio, pertanto, è, per così dire, la necessaria condizione dell’interazione costituzionale, la predisposizione soggettiva che ci viene obiettivamente richiesta per attingere ai principi fondamentali della Carta costituzionale e per riconoscere, nei diritti e nelle libertà in essa affermati, gli snodi elementari per ogni possibile discussione e decisione.
Come si potrebbe tradurre, sul piano operativo, questa peculiare ispirazione metodologica?
Si potrebbe dire, abbastanza facilmente, e quasi parafrasando un precetto filosofico kantiano assai noto, che si può cominciare dal gesto di dubitare di tutto ciò che vorremmo fosse dubbio laddove noi stessi e la nostra azione (o il nostro pensiero) fossimo oggetto di attenzione dalla restante parte della collettività. In altre parole: dubita di te stesso e delle tue convinzioni se ritieni che, a parti invertite, il tuo interlocutore (cioè tu stesso, in quel momento), potrebbe avere effettivamente ragione.
La mitezza e la coerenza
Si potrebbe essere indotti a ritenere, però, che il dubbio possa sortire effetti paralizzanti, e che, in ultima analisi, l’imposizione di una scelta sia sempre inevitabile.
Occorre precisare che dal punto di vista della mitezza costituzionale, così come brevemente sintetizzata, il dubbio non è il contenuto del procedimento decisionale, bensì il presupposto fondamentale, ossia la proposizione preliminare di un test di intima ed estrema coerenza da parte di chi, sia pur rappresentante della maggioranza della società, si ponga nel dubbio di doversi ipoteticamente riconoscere nella situazione del proprio interlocutore, e quindi anche nella minoranza.
Ciò non comporta, automaticamente, la rinuncia alla propria lettura della realtà; essa può restare inalterata, e ne riuscirà addirittura rafforzata laddove soggetta alla prova «includente» di una prospettiva diversa, la quale, a sua volta, non si sentirà «esclusa», ma si potrà considerare «partecipe», sia pur dissenziente, dello stesso procedimento.