La terza via

di Corradini Luca

Sono stato in Brasile per 8 mesi. Tanto o poco, a seconda dei punti di vista. Tanto se vieni qui semplicemente per fare il turista: è esattamente come andare in qualsiasi parte del mondo. Poco se vuoi cominciare a venire a capo dell’immenso puzzle brasiliano, anche limitandoti a focalizzarne solo un pezzo, come può essere Salvador de Bahia.

Premessa

Prima di procedere è necessario un esercizio preliminare: separare le motivazioni personali che mi hanno portato fin qui (o come si suol dire, le molle che mi hanno spinto a partire) dalla realtà effettiva che ho trovato e con cui mi devo confrontare ogni giorno. é un po’ il discorso dell’uomo “frammentato”, scisso in più nuclei, che perde la sua totalità e, di conseguenza, conosce crisi e decadenze. A quel punto nell’alienazione degli anni ’80 (alias per ritrovare un senso unitario) può fuggire (“Puerto Escondido”), oppure fregarsene e confondersi nella massa (“L’uomo qualunque”), oppure scegliere di cambiare la sua condizione.
Io ho scelto la “terza via”.
Sono partito per il Sud del mondo con il tipico bagaglio culturale dell’occidentale e con la “buona intenzione” di fare il volontario. Una volta arrivato poi mi sono reso conto che, per quanta attenzione si possa prestare a quel che ci sta intorno e per quanto spirito critico si possa avere, tutto finisce col ridursi ad una buona dose di supponenza. Ma probabilmente questo, all’inizio, è inevitabile. Arrivi qui con una preparazione abbastanza ampia da indurti a credere di avere strumenti interpretativi adeguati alla situazione. Dopo 4 giorni invece (o 4 mesi) ti accorgi che essi sono meno che niente. Non basta aver letto qualche buon libro sull’America latina, conoscerne abbastanza la storia, saper definire (con categorie sociologiche e/o antropologiche più o meno adeguate) la stratificazione della società, se poi non riesci a capire il modo di pensare di questo popolo, con le sue innumerevoli sfaccettature.
Diventa necessario un “pensare Bachtiniano”: imparare a guardare la propria cultura con gli occhi dell’altro, dunque metterla a nudo e valutarla in base alla cultura dell’altro, per conoscerne i valori intrinseci ma anche i limiti e gli aspetti negativi.
Certamente non è facile, ma solo così c’è veramente interscambio culturale e reciproca comprensione; solo così arricchiamo tanto noi quanto l’altro. é a causa di tale difficoltà che le grosse organizzazioni di volontariato pongono una serie di condizioni e richieste preliminari, apparentemente eccessive, a chi vuole fare una concreta esperienza di questo tipo. Ciononostante è buono (può diventare ottimo) anche viaggiare come propone Macondo, senza grandi impegni, liberamente, sia pur col fine di conoscere più a fondo e di capire – confrontandosi e toccando con mano – altre situazioni, luoghi, istituzioni, progetti, esperienze, persone, volontari ecc. A condizione che siamo disposti ad aprirci sul piano culturale, senza la presunzione di saper già leggere realtà, in parte o completamente, diverse dalla nostra.

Bagaglio: due colli ingombranti

Personalmente sono arrivato in Brasile con un “sapere” composto da due sostanziali mistificazioni:
* l’idea che il Brasile debba per forza essere un “grande paese” (nel senso più ampio del termine), costretto ad utilizzare al minimo, o a non usare affatto, risorse enormi di ogni tipo. Oppure a sfruttarle appieno ma ad esclusivo vantaggio dell’O.M.I. (Ordine Mondiale “Ingiusto”). Che se poi la gente muore di fame, la colpa è del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale. é questa la leggenda del “gigante” celebrata dall’inno nazionale, o del “colosso dai piedi d’argilla”, tenuto perennemente in catene. Dapprima dall’invasore europeo, poi dai nordamericani (“Dottrina Monroe”), fino all’affermazione della “logica del profitto” immanente al modo di produzione capitalista.
Indubbiamente dietro a tali semplificazioni c’è molto di vero, non ci si scappa.
La politica estera, gli avvenimenti e le dinamiche internazionali, la macroeconomia con i suoi modelli, hanno fornito il più comodo dei paraventi per coprire le peggiori nefandezze della politica interna e le responsabilità più gravi che hanno precipitato il Brasile nella catastrofe sociale. Sono alibi che gli storici conoscono fin troppo bene: la “dipendenza” reale (dai poli egemonici del sistema capitalistico) non si dà solo per effetto di fattori esogeni ma anche, e soprattutto, per effetto di fattori politici, economici e sociali endogeni, non necessariamente determinati dai primi.
Di fatto, tornando all’assunto iniziale, dubito che il Brasile possieda realmente i requisiti necessari per essere un paese “sviluppato”, economicamente autonomo, con sovranità reale, democratico, in un ipotetico “Ordine Mondiale Giusto”. Ma come potrebbe esserlo laddove sono riconosciuti i fondamentali diritti politici e civili ma – al contempo – sono negati i più elementari diritti sociali? é questa la “modernità”?

* La convinzione che una nuova rivoluzione contro l’O.M.I., al punto in cui siamo arrivati in Europa, dovrebbe (o almeno potrebbe) partire dal cosiddetto “Terzo Mondo”. Da quelli che Fanon definì “i dannati della terra”. Da coloro che pagano, in assoluto, il prezzo socialmente più alto: i “Meninos de rua” assassinati a Rio, le prostitute-bambine di Recife, i minori abbandonati all’OAF o a Manaus. I diversi “inferni africani” come Ngoro Ngoro in Kenya o i nostri inferni a due passi da casa (Sarajevo).
Ma intanto esiste in Brasile una sorta di filone culturale che indica come soluzione a questi gravissimi problemi la formula magica del “lascialo stare che tanto Dio, o chi per lui, lo aiuterà, prima o poi”. Una politica che sembra il corrispettivo, in chiave locale, del nostro classico “scaricabarili”: tutti sono responsabili ma nessuno assume il peso delle sue effettive responsabilità.
Tra il popolo brasiliano questa concezione si concretizza nella tendenza, sempre più diffusa, a rimuovere i problemi di ogni giorno nell’euforia della festa, tra cervejas, capetas, cachaìças o “tirando colla”. Viene spontaneo osservare che tale straordinaria, innata tendenza alla festa, al ballo, al tifo, alla “catarsi” collettiva, sembra quasi necessaria per dimenticare, o almeno camuffare, una realtà fatta, troppo spesso, di estrema povertà, umiliazione e disperazione. Perché altrimenti Bahia, lo stato più profondamente interessato dal problema storico della schiavitù, vive oggi con simile interesse, partecipazione e intensità il carnevale? Forse perché anche questa è una forma di “resistenza” rispetto alle pressioni del sistema.
Mi rendo conto che è una tesi arrischiata ma penso renda bene l’altra faccia della medaglia, almeno in un paese dove tutte le contraddizioni sono esasperate e portate al parossismo. Un popolo abituato (o costretto?) da sempre a ficcare la testa nel terreno come gli struzzi, non appena la situazione diventa troppo pesante e/o insostenibile. Pronto a soffocare le ingiustizie più gravi bevendo e ballando dietro ad un “trio eletrico”. Oppure un popolo pronto a lottare anche nelle situazioni più difficili e sfavorevoli (il “Quilombo” di Zumbi, la “guerra de Farrapos”, la tragica epopea di “Canudos”), pagando prezzi altissimi.

Che fare?

Giunti a tal punto ci si può chiedere come fare a cambiare il Brasile (o il Sud del mondo) o se, forse, non sia meglio lasciar perdere. No! Non possiamo!
Di sicuro, parlando con le persone, quel che si nota è forte pessimismo. Troppa disillusione, promesse mancate, “ultime chances” puntualmente disattese. Nemmeno la concreta possibilità che Lula venisse eletto Capo dello Stato nelle presidenziali ’94 sembrava infondere qualche speranza di cambiamento.
Nei fatti invece il Brasile sta cambiando. L'”impeachement” di Collor, la costituzione della C.P.I. (Commissione Inquirente sulla “grande truffa” del Bilancio), la risonanza di eventi come le stragi della Candelaria o di Vigario Geral a livello di mass media, sono segnali precisi.
Più di dieci anni di stagnazione e di crisi economica, di continua diminuzione dei salari reali (inversamente proporzionale alla distribuzione della rendita sempre più iniqua), di super urbanizzazione, hanno finito col mettere in moto meccanismi che incidono e mutano stabilmente le strutture, le dinamiche, i conflitti e le relazioni intersociali. Così come, in Italia, il sommarsi di una profonda crisi di legittimità politica con una dirompente (in termini di disgregazione sociale) crisi economica ha fatto saltare equilibri politici (e blocchi sociali) vecchi di cinquant’anni, riaprendo di fatto tutti i giochi. Reputo piuttosto improbabile che da un simile cocktail non escano modifiche irreversibili anche qui in Brasile; non è più possibile continuare in questo modo: o si prende coscienza della gravità della situazione e si attuano profonde riforme di tipo strutturale o si arriva al punto di rottura, dopodiché si salvi chi può.
Esistono fermenti (lotta per la casa, per il diritto all’istruzione, alla salute, alla salvaguardia del lavoro e dell’ambiente…) che indicano come il ciclo di grandi lotte cominciato con gli scioperi dell'”ABC” Paulista (ancora sotto la dittatura militare) e culminato nelle grandi occupazioni di terre nella prima metà degli anni ’80, non si sia ancora completamente esaurito. Vi sono per” altri elementi, meno visibili, che non riusciamo a notare e a comprendere se non tramite chi vive ed appartiene alle mille culture ed identità brasiliane. Ecco perché è importante accettare consigli, suggerimenti, osservazioni e cambiare, ogni volta che sia necessario, la nostra impostazione occidentale. Ecco perché la proposta di interscambio culturale di Macondo, se giustamente intesa, funziona.