La scuola sognata, la scuola vissuta
Parliamo della scuola che sogniamo o di quella, più concreta, che viviamo? La prima, inventata in Magna Grecia da Pitagora, è una comunità educante: uomini e donne sperimentano – in maniera assidua e durevole- l’offerta di senso di un progetto unificante in nome del quale rinunziare non certo alla propria personalità (che anzi viene, proprio da questa esperienza di comune-unità, rafforzata), ma agli spigoli dell’individualismo e alla vaghezza dello spontaneismo. Purtroppo, se non vogliamo prenderci in giro, la scuola effettiva non è una vera e propria comunità: lo è, come i manicomi o le caserme per soldati di leva obbligatoria, in senso traslato (e stomachevolmente retorico). Insegnanti ed alunni, presidi e amministrativi non si fondono in nessuna unità vitale, né smussano alcun individualismo, per la ragione – semplice ma radicale – che non sono convocati da nessun appello comune. La loro aggregazione è precaria perché funzionale rispetto ad attese e scopi diversi, non di rado divergenti: i sociologi direbbero che insieme formano, nei casi migliori, un gruppo che persegue – provvisoriamente – un obiettivo (parziale).
Se la scuola fosse…
Chi bussa alle porte del monastero aspira alla santità religiosa, chi chiede la tessera del circolo del tennis desidera acquisire abilità agonistica. Se la scuola fosse una comunità avrebbe, anche essa, innanzitutto, un progetto ad-comunante: la ricerca della consapevolezza critica, del confronto dialogico, della formazione civica. In una parola: la ricerca. Ma così non è certamente per il 90% degli alunni che si iscrivono a scuola per avere un diploma da spendere professionalmente, per non contrastare la volontà dei genitori, per imitare i coetanei, per evitare di oziare in solitudine o per innumerevoli altre ragioni. Potrebbe accadere che, entrati a scuola con aspettative vaghe e un po’ confuse, gli alunni scoprissero per via la passione per l’indagine, per la riflessione, per la fruizione estetica, per l’agire comunicativo: ma anche questo avviene di rado. A contagiarli dovrebbe essere, infatti, la passione dei loro insegnanti che, però, o manca in partenza o va scemando per strada. I meccanismi di arruolamento e di carriera sono stati ispirati, almeno dall’unità d’Italia, ad una sorta di patto perverso: “Io Stato ti pago poco, ma ti assumo senza fatica e mi accontento del tuo minimo di rendimento”. Risultato: il ruolo di professore è facile da assumere, facilissimo da conservare (i controlli sono quasi inesistenti), impossibile da perdere (purché si rispettino alcune formalità), ma pochi altri mestieri sono altrettanto demotivanti dal punto di vista della gratificazione professionale e socio-economica.
Proposte preliminari
di cambiamento
Di fronte alla nuda verità oggettiva, farsi illusioni è alienante e forse pericoloso. Più saggio prendere atto della situazione e modificare le proprie strategie. Per prima cosa smettere di chiedere alla scuola ciò che essa non può dare. Abbiamo bisogno di esperienze comunitarie, di relazioni profonde e durature con altri che con-dividano idee più forti dell’appiattimento quotidiano garantito dal benessere borghese? Ritagliamoci queste esperienze al di fuori dell’ambito scolastico: le nostre serate intorno al camino a leggere poesia o i nostri seminari di programmazione sociale con i volontari in partenza per il Kossovo saranno quelle oasi di senso che potranno rendere più ricca e accattivante anche la nostra attività (discente o docente) scolastica. Se smetteremo di illuderci sulla vera condizione della scuola, se capiremo che essa ci balza viva dai deliziosi schizzi di Domenico Starnone e che Accademie e Licei in cui maestri e discepoli convivevano sono pallidi ricordi, potremo tentare di migliorarla effettivamente. Pochi passi, nessuno determinante, ma certo utili: abolizione del valore legale dei titoli di studi, sistemi molto più rigorosi nella selezione dei docenti, meccanismi di incentivazione economica per i più professionali. Ma, prima di tutto e sopra di tutto, nuovo riconoscimento sociale della dimensione culturale e pedagogica (potenza del linguaggio simbolico: in questi giorni Del Piero ha firmato con la Juventus un contratto da quaranta milioni al giorno, più di quelli che un insegnante di letteratura tedesca riceve in tre anni!).
Spetta alla maggioranza attiva (e votante) dei cittadini stabilire se la scuola – che lo si voglia o meno, non più “comunità” – debba diventare una struttura competente, democratica e pluralistica a servizio della formazione (iniziale e, perché no?, ricorrente) dell’intelligenza e del senso civico delle nuove generazioni (per la qualità della vita, ma anche per l’efficienza produttiva ed amministrativa). E se così la maggioranza decide, dovrà essere conseguente: non si può pretendere di convincere almeno una parte dei migliori neolaureati ad insegnare continuando a prospettare uno stipendio tre o quattro volte inferiore a quello dei loro coetanei altrove inseriti.