La questione del Chiapas

di Ruiz Samuel

Conversazione del vescovo della diocesi
di San Cristóbal de las Casas con il gruppo di Macondo

Premessa di dom Samuel: alcune sorprese
Incominciamo con una breve cronologia dei fatti accaduti. Come voi sicuramente sapete questo movimento (il Fronte Nazionale di Liberazione Zapatista) ha colto tutti di sorpresa. Dall’America Latina sembravano ormai cancellate le possibilità di una rivolta armata, la cosiddetta guerriglia nell’America Centrale e in tutto il continente sud americano era ormai scomparsa dall’orizzonte ideologico di tutti quelli che analizzavano la situazione. A questo si deve aggiungere il mancato intervento del nostro “buon vicino”, che ha una grande capacità di andare dovunque se c’è qualche problema, anche in Arabia Saudita, e fare una tempesta di sabbia. Essendo vicini ci si aspettava una immediata reazione, ma non c’è stata. Si tratta di una situazione poco spiegabile: l’astuzia degli indios ha reso impossibile un intervento degli Stati Uniti perché sarebbe stato rigettato internazionalmente e immediatamente: è una cosa locale anche se si sa che la risonanza è su vasta scala.
Un altro elemento che ha fatto riflettere riguarda la popolazione indigena. Gli Indios sono conosciuti più come quelli che non si muovono e difendono la loro cultura, la loro lingua, le loro tradizioni e i loro valori, dunque sono sempre stati identificati con l’immobilismo storico; che questi si siano sollevati per chiedere la trasformazione della società messicana è stato un fatto proprio insolito ed inaspettato.

Pregiudizi sugli indios
D’altronde era un dogma nelle analisi del continente e altrove che gli indios non erano destinati e quindi riconosciuti capaci di cambiare il sistema economico internazionale, solo gli operai erano “gli eletti”, chiamati perché, si diceva, erano al centro della produzione del sistema. Così è continuata la voce “operai di tutto il mondo unitevi” ed è penetrata nella coscienza di tutti quanti. Era logico pensare che solo quelli che si trovavano dentro il sistema produttivo fossero in grado di chiedere salari più giusti e migliori condizioni di vita.

Discriminazione culturale
Dunque, gli Indios non potevano fare il passo avanti senza essere uniti agli operai. A volte mi sono sentito dire dai miei collaboratori: “Scusate signor Vescovo, Voi trattenete il movimento di liberazione degli indios quando affermate che è necessario avere prima una coscienza della propria identità culturale”. E aggiungevano: “Non essendo coscienti di essere indigeni ma essendo consapevoli di essere sottomessi e sfruttati, gli indios hanno la possibilità di essere alleati con gli operai?” Si dimenticavano una cosa importante: al di là della dominazione economica c’è anche uno sfruttamento culturale. A questo proposito diceva un indios della Repubblica del Salvador in una conferenza che si è svolta in Messico parecchi anni fa: ” Se io vengo assunto per fare un lavoro, vengo pagato meno solo perché sono un indio anche se eseguo il lavoro meglio di un meticcio; percepisco un salario inferiore non per incapacità mia ma per discriminazione razziale”. C’è dunque una discriminazione economica ma c’è anche una discriminazione culturale e quest’ultima non veniva considerata fino a poco tempo fa, adesso viene presa in considerazione e credo che questo apra una porta a una trasformazione mondiale perché la possibilità che gli operai possano trasformare il sistema è stata ormai sicuramente cancellata.

È caduta l’utopia operaista
Perché si è cancellata questa possibilità? Perché con la caduta del sistema che si contrapponeva al sistema capitalista, lo stesso sistema capitalista che pensavamo fosse già morto – in Nicaragua avevamo fatto la cerimonia del Requiem – prontamente si è espanso dappertutto ed è diventato l’unico sistema economico universale dominante esistente. La possibilità degli operai di influire direttamente sulla realtà è diventata un’utopia quasi impossibile da raggiungere perché il sistema si è schierato in forma nuova.
Anche lo sviluppo dell’automazione è diventato una delle difficoltà più gravi per un’attività di riforma e di trasformazione del sistema. Ci sono parecchie industrie che non hanno bisogno di operai ma solo di un motore per mettere in funzione tutta un’industria; si ha bisogno di gente solo per l’acquisto dei prodotti ma non certamente come manodopera a basso costo.
Così l’impossibilità di influenzare il sistema economico diventa un’accettata verità ovunque e si cancellano per lungo tempo le aspettative di una trasformazione del sistema. E all’improvviso viene questa voce degli indios che non è la prima volta che si esprime ma che già con la celebrazione dei 500 anni di sottomissione era emersa chiaramente in tutto il continente, in Bolivia, in Peù. in Ecuador, in San Salvador, e in modo più esplicito in Guatemala, un paese composto in maggioranza da indios.

Due affermazioni senza precedenti
La presenza degli indios ha costretto anche il Pontefice a dire in Yucatàn, verso la fine del 1993, due cose quasi quasi incredibili se si pensa che sono state dette da lui, e che sono frutto di un’elaborazione e non di improvvisazione (già a Santo Domingo qualche tempo prima, all’assemblea dei vescovi, il Papa aveva intenzione di pronunciare questo discorso ma poi non si era sentito bene ed era ritornato in Italia).

Evangelizzazione
La prima: gli indios sono il soggetto dell’evangelizzazione del continente. Non solo quello che si era già detto, cioè che l’evangelizzatore migliore è quello che appartiene allo stesso gruppo sociale dell’evangelizzato (gli indios quindi dovrebbero essere evangelizzati dagli indios), ma in questo caso l’indios deve evangelizzare tutto il continente; quella realtà espressa molte volte nell’affermazione della teologia latino-americana che universalmente i poveri ci evangelizzano è diventata un’espressione molto concreta: gli indios ci evangelizzano perché loro sono nella parte più bassa del sistema, sono i poveri tra i poveri.

Cambiamento
La seconda affermazione è altrettanto incredibile: Voi (indios) siete il soggetto della trasformazione dello sviluppo del continente. Questa è certamente un’eresia sociale perché come possono arrivare ad essere il “soggetto” se non sono neanche dentro al sistema ma marginalizzati proprio dallo stesso sistema. Il Papa partiva però da una sommaria descrizione e da una generica condanna del capitalismo indicato come la causa del depauperamento e della miseria del continente e in particolare degli indios, il gradino più basso del sistema; aggiungeva che d’altronde lo scambio (da oggetto a soggetto di evangelizzazione) si doveva promuovere non con mezzi violenti ma con armi pacifiche e doveva essere guidato dall’alto. E non si è fermato qui, ha fatto un’ulteriore considerazione: gli indios non avrebbero dovuto aspettare che altri cominciassero a fare qualche cosa per cambiare la situazione (“Voi dovete fare, dovete attuare e non aspettate che altri facciano per voi”).
Non si poteva certo pensare che da lì a poco gli Indios del Chiapas si sarebbero resi protagonisti di una rivolta così importante.
La rivolta zapatista ha inoltre avuto l’appoggio di tutte le popolazioni indigene del continente. San Cristóbal ha visto la presenza di rappresentanze di indios di Canada, Stati Uniti, America Centrale, differenti tribù del Messico e anche dell’America del Sud, e tutti per dire che anche se non d’accordo con i mezzi violenti utilizzati, la causa degli Indios del Chiapas era la loro causa e la lotta degli Indios era la loro lotta.

Ecologia e giustizia
D’altra parte quando pochi anni fa io sentivo parlare dell’ecologia nei primi anni ottanta guardavo a questa affermazione come una via di fuga dai problemi legati alla giustizia delle persone del Terzo Mondo: è più facile parlare degli alberi e della natura che della Giustizia. Ma improvvisamente queste due cose (ecologia e giustizia) si sono ben unite perché si è arrivati ad un punto tale che lo sviluppo industriale, alla base della concezione del progresso attuale, è una minaccia se non si avrà un contenimento dei consumi di energia proveniente da risorse naturali non rinnovabili.
Se ciò non avverrà non solo non ci sarà un ulteriore sviluppo industriale, ma l’umanità sarà concretamente minacciata.
Per queste ragioni è stata sviluppata una sintesi tra la richiesta di tutela ecologica e la domanda di giustizia.

Riflessioni sulla separazione tra primo e terzo mondo
Finalmente è scomparsa, penso dal mondo intero, la linea di separazione chiara tra primo e terzo mondo almeno qui nel continente latino-americano. Gli Stati Uniti sono diventati luogo di attrazione per tutte le popolazioni dell’America latina. Ho l’immagine di un uragano dove i venti hanno una tremenda velocità al di fuori ma al centro c’è una quiete e tranquillità stabile. Cercando questa stabilità tutte le popolazioni vicine hanno cercato di recarsi negli Stati Uniti e lì ci sono addirittura città con popolazione latino-americana di gran lunga superiore alle città di origine. La città di Guadalajara non è più la seconda città del Messico: la seconda città del Messico adesso è Los Angeles.

Una comunità di indios a New York
Questo succede anche per altre città. Due anni fa io non volevo credere a quello che mi raccontava un sacerdote di New York che è venuto a Oaxaca (sud-ovest del Messico) per imparare una lingua indiana perché aveva una parrocchia composta esclusivamente da Indios che non parlavano l’inglese! Come fossero arrivati là nessuno lo sa. Questo fenomeno che era già visibile per noi, è adesso una cosa chiara anche in Europa. Il terzo mondo dell’Asia è presente da voi in Europa e non soltanto con grande affollamento ma anche con una conflittualità ancora più seria: se si fa esplodere una bomba nel Metro di Parigi e la prima condizione per dialogare è che il Presidente della Repubblica si converta all’islamismo, allora abbiamo un serio problema per il dialogo. C’è una situazione forte, la presenza è grande, l’influenza economica ma anche la manifestazione di un’oppressione culturale esistente nel mondo è molto chiara.
Perciò essendo entrati chiaramente in una fase di dissolvimento di questa divisione geografica tra il Primo e il Terzo Mondo, anche le domande dello sviluppo industriale vengono incontro a questa richiesta di sopravvivenza per tutti quanti. Pertanto il Terzo e Primo Mondo non sono più in relazione asimmetrica ma insieme nella stessa lotta per la sopravvivenza dell’Umanità. Perciò adesso si riuniscono tutti gli sforzi.

La rivoluzione zapatista come “luce nascente”
Ritornando in America Latina, in questo piccolo angolo del Messico, possiamo dire che la comparsa del fenomeno zapatista, con la denuncia di oppressione anche culturale, apra la riflessione sulla trasformazione dell’umanità finalmente libera dall’oppressione culturale.
Africani, asiatici, indios nel continente latinoamericano e anche altrove e soprattutto le donne, perché sono sfruttate culturalmente in tutti i Paesi del mondo, sono nuovi soggetti di questa trasformazione.
L’attenzione dell’opinione pubblica straniera verso il Chiapas e la solidarietà hanno giocato un ruolo molto importante per la cessazione della guerra che infatti non è durata dieci anni come in Guatemala o a El Salvador ma dieci giorni, e dopo due settimane di scontri ci sono stati i primi sforzi per un dialogo tra le parti. Inoltre la sensibilità e la solidarietà internazionali hanno indicato che c’è la possibilità di andare insieme perché qui, a mio avviso, si sta perfezionando un piccolo modello che potrà dare un’ispirazione per la soluzione pacifica trasformatrice dell’umanità.

Il Chiapas è parte del mondo
Perciò non è per me una sorpresa che voi siate qui: se siete qui è perché questo non è il Chiapas ma è una parte del mondo, è una luce nascente che può illuminare e ispirare anche altre situazioni di conflittualità.
Infatti pur avendo in Europa conflitti così forti come quello della Cecenia o della Bosnia, al quarto o quinto giorno del gennaio 1994 tutta la stampa e i mezzi di informazione erano presenti in Chiapas e a tutt’oggi continuano ad avere un’attenzione, anche se non con lo stesso dispiegamento di mezzi del primo periodo.
In questa maniera spontaneamente e senza averlo ricercato c’è una situazione nuova: la questione Chiapas non ha ripercussioni solo a San Cristóbal, nella sua diocesi o nello Stato del Chiapas ma anche a livello nazionale.
La mediazione ha coscienza della presenza di un fenomeno non soltanto locale, “chiapaneco”, ma sa che fin dall’inizio è stata una guerra dichiarata qui ma che coinvolge tutto il paese.

Il Chiapas è uno stato ricco
Così come un’esplosione vulcanica la rivolta ha luogo in profondità e tende a scaricarsi nella parte più debole della cappa sociale e qui era più debole. Tutte le statistiche pubblicate sul Chiapas mostrano indici di povertà e di miseria più grandi che nelle altre parti della repubblica.
Ma il Chiapas è ricco, ricco di produzioni di caffè, cacao, ricco in produzione di elettricità e di petrolio e di legname pregiato, risorse naturali tanto grandi che non si spiega la miseria se non tenendo conto del funzionamento, o meglio disfunzionamento, del sistema attuale. Produciamo una quantità tale di energia elettrica che siamo in grado anche di esportarla negli Stati Uniti: nonostante questa situazione i nostri contadini non hanno l’energia elettrica perché è impossibile per loro pagare la quota prevista, preferiscono le candele o la luce del sole quando è possibile. Ma la contraddizione tra le risorse e la distribuzione è chiaramente la manifestazione di questo nostro sistema che deve dunque cambiare.

Componenti del dial
ogo Quando il dialogo si è instaurato, anche se all’inizio ero io solo come persona, evidentemente schierato con alle spalle la diocesi, si è chiamata subito Commissione Nazionale d’Intermediazione, perché tutte le altre persone che sono state invitate non hanno ragionevolmente potuto attendere a questo compito (una perché straniera, un’altra perché aveva una vocazione di giornalismo e quindi pensava di dover essere imparziale), pertanto mi sono trovato insieme ad altri due vescovi (delle diocesi di Ocosingo e di Comitan). All’inizio abbiamo chiesto un cessate il fuoco, ma hanno avuto considerazione soltanto di me perché rappresentavo la diocesi coinvolta maggiormente sia dal punto di vista dell’estensione territoriale che per numero della popolazione che aveva preso parte alla guerriglia.
Non è mai stata la forza delle armi che ha fatto sperare nel possibile cambiamento della situazione del Chiapas, sempre la forza maggiore è venuta dall’appoggio civile e politico della popolazione nazionale ed internazionale.
Dunque la responsabilità per la mediazione è grande e il funzionamento attuale è passato attraverso differenti momenti. Ora siamo nella fase più gloriosa, infatti stiamo per arrivare alla prima firma di accordo generale che si concluderà dopo sei incontri, ma siamo coscienti che il nostro lavoro ora collegiale (siamo 8 persone nella Commissione Nazionale d’Intermediazione) passa per una comprensione del linguaggio e dell’intenzionalità che hanno i due dialoganti; non è soltanto una questione di traduzione – ci sono cinque lingue nei gruppi rappresentati nella delegazione – ma anche diversi livelli di discussione: quello nazionale, che prevede modifiche alla Costituzione del Paese, e quello locale, che ha anche ripercussioni nazionali. Con queste premesse si farà l’accordo perché i documenti che sono stati diffusi nella tappa precedente non sono stati una voce isolata di una delle parti ma sono il frutto di un accordo fatto a più voci, avvenuto prima della pubblicazione. Questa mattina si partirà dai punti convergenti e dalle divergenze di allora per arrivare, speriamo, ad una definizione; la Commissione Parlamentare, presente a San Andres, farà oggi una sintesi di quelle cose a cui si è giunti in pieno accordo e di quelle che ancora sono da discutere o di cui si dovrà discutere negli incontri successivi come per esempio in quello sulla Giustizia e Democrazia.

San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Messico, 14 febbraio 1996.

Il gruppo di Macondo era composto da Marco Crimi, Carmelo Miola, Antonio Stivanello, Giuseppe Stoppiglia e Giampaolo Zulian.
Trascrizione e revisione della registrazione a cura di Paola Lega, Monica Lazzaretto e Giampaolo Zulian