La paura di crescere
“L’Italia sta marcendo in un benessere che è Egoismo,
Stupidità, Incultura, Pettegolezzo, Moralismo, Coazione, Conformismo:
prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo.
Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza
morale che riesce a vincere la tentazione di partecipare ad un mondo che
apparentemente funziona con le sue leggi allettanti e crudeli”.
(Pierpaolo Pasolini, 1962)
Mentre l’estate scivola via insieme alle goccioline di sudore, noi di Macondo, pur dispersi per il vasto mondo, stiamo pensando furiosamente (tanto il cervello non suda) al futuro.
Cosa fare per migliorarci, per diffondere la nostra speranza? Cosa inventare per sopravvivere (una gara mai vinta definitivamente), cosa promuovere per elevare la qualità del nostro servizio alla solidarietà?
Le difficoltà di Macondo sono grandi e numerose, ma pensiamo di avere la testa più dura degli ostacoli e contare su degli amici sempre più forti.
Macondo sta proseguendo il suo cammino contro vento, pur con risorse esigue. Il prossimo anno ci sarà ancora, malinconico e beffardo se volete, ma ostinato nella sua meta, innamorato come mai dell’utopia. Anch’io cercherò di intensificare il dialogo con Voi, rendendolo più puntuale e continuo, dato che ho deciso di staccarmi lentamente dal lavoro nella formazione sindacale. Proseguirò in queste autocelebrazioni, più sbruffone che poeta. Sempre a patto, però, che Voi, amici, restiate con noi: dobbiamo assieme dar senso a questo allegro batterci in continua ricerca.
Sono rientrato a casa, dopo alcuni giorni, luminosi, trascorsi a Praga. Ritrovo la mia valle più accattivante del solito, lussureggiante e rigogliosa. Mi lascio accarezzare volentieri dalla sua brezza così tenera e dolce mentre scrivo queste note.
Ho rivisto Praga dopo 26 anni. Nel 1968 era stato il pellegrinaggio ad una città ferita. Il suo movimento di liberalizzazione era stato stroncato nel sangue. Oggi, vecchio e disincantato, ho scoperto con più chiarezza il suo volto arcano e malinconico. Mi son sentito sferzare il viso da raffiche di irrazionalità e di complicità inverosimili tra fenomeni opposti. Fortuitamente ho incontrato cantori, alchimisti, marionettisti, poeti, musicisti, prostitute, operai, rabbini, astrologhi: un coro di voci che mi accompagnavano nel mistero e nella magia.
Mi è successo ciò che scriveva Kafka: “Praga non molla nessuno di quelli che ha catturato”. Sarà che la mia simpatia per i praghesi oltre che per la loro indole pacifica e il loro carattere scettico, nasce per un’ironia surreale e specialmente per uno scarso senso dell’autorità. Il fascino di Jan Hus, l’eretico, è su di me sempre molto forte e profondo, fino a commuovermi camminando nella piazza della Città Vecchia, dove venne condannato al rogo. Ormai l’avete capito: io amo più gli eretici degli ortodossi.
Il copione langue
Superata questa fastidiosa divagazione personale, entriamo nel campo del nostro sogno (sognare è essenziale per migliorare la vita). Sarà perché il caldo alla fine è arrivato, sarà che otto giorni di vacanza sono insufficienti, fatto sta che la prima parola che mi viene in mente per definire questa estate è: stanchezza. Ma, a ben guardare, questa stanchezza non è la fiacca del corpo od il torpore della mente: è la stanchezza, ben più pericolosa, del non vedere nulla di nuovo, come se vivessimo un video che continua a riavvolgersi e cominciare da capo. È quasi l’anticamera dell’assuefazione. Brevi punte frastagliate di cronaca tracciano l’elettrocardiogramma di vicende che si trascinano uguali a se stesse da mesi o da anni. Il copione langue e si riproduce all’infinito, come nelle telenovelas.
Tangentopoli è ormai noiosa, perfino nelle tragedie. La bolgia infernale dell’ex Iugoslavia è uno sfondo abituale, ospite fissa dei mass media come le previsioni del tempo. Il Ruanda resta preda del suo stallo, con le truppe dell’ONU a giocare a scacchi. Già, l’ONU, l’unica realtà sempre uguale a se stessa, che continua a vagare con l’aria sognante e smarrita di un gigante scemo in tutti i teatri di tragedia. Risorse enormi vengono spese, uomini muoiono sotto le sue bandiere ed il palazzo di vetro resta là, a rimandare nel mondo dai suoi mille specchi l’immagine inossidabile della sua sublime inutilità.
L’intolleranza continua il suo percorso carsico, riaffiorando nel territorio del disagio e dell’emarginazione. Stanchezza, ripetitività, nausea. Sentimenti minimalisti per un’estate ordinaria in cui eroismo significa continuare a battersi contro situazioni che sembrano fissate nel tempo. Tuttavia anche l’apparente ripetitività degli eventi serve a qualcosa: permette di tirare alcune somme.
Il muro dell’indifferenza
Questa fase storica sta elevando a valore quella che è la più grande piaga dell’umanità: l’indifferenza. Ognuno di noi crede di bastare a se stesso, “gli altri” costituiscono un optional da ricercare “al bisogno”.
Ci sono momenti in cui il sentimento dell’impossibilità di procedere oltre diventa generale. Consumate le riserve del fervore nell’impegno, c’è il bisogno di sedersi, rinunciando a camminare. Le circostanze attuali mi sospingono a riflettere sulle ragioni di questa stanchezza, che non sono immediatamente personali, sono esterne, condivise, diventano tonalità collettive, clima storico. Fino a che c’è un rapporto di corrispondenza tra le speranze che ci animano e l’orizzonte della nostra azione, la ragione del camminare sopravvive. La meta è lontana, ma è visibile, le forze necessarie per raggiungerla sono disponibili: è sufficiente stringere i vincoli della concordia e della collaborazione. Ma ci sono momenti in cui, invece, non trovando più nessuna corrispondenza, le risorse della speranza si illanguidiscono e noi cadiamo nella stanchezza spirituale.
In questi momenti ci è concessa la possibilità di scoprire che, sotto certi fervori apparentemente illuminati e generosi, sotto certe dedizioni ad ideali universali, ci può essere una dilatazione dell’affermazione di sé. Non c’è solo il gretto egoismo biologico, che parte dal soggetto e vuol tornare al soggetto coi suoi frutti, c’è una dilatazione dell’egoismo che prende aspetti di universalità, di civiltà, come amiamo dire noi.
Quello che stiamo vivendo è un momento di miseria e di grandezza. Di miseria, perché si rischia davvero di cadere in quella disperazione anestetizzata che è l’ignavia. Non tutti i disperati si strappano i capelli: si seggono, tirano a campare, accettano la misura del giorno, non sperano altro, sono rinunciatari dal punto di vista degli ideali morali. Il numero maggiore dei disperati è di questo tipo. La disperazione che grida è già un sintomo di nobiltà, ma c’è la disperazione che non grida più, che non trova nemmeno motivo di gridare. E questa è immensa.
Una coerenza sconosciuta
Come facciamo ad uscire da questa situazione? Intanto occorre il riconoscimento che la rappresentazione che ci facciamo della vita e del mondo è misurata su di noi e quindi più che essere una ragione di generosità vera, di vero amore, è una giustificazione di egoismi dilatati, non avvertiti come tali. Uno può anche commettere crimini credendo di rendere onore a Dio: è scritto nel Vangelo ed è scritto nella storia. Ci sono persone soggettivamente innocenti, oggettivamente criminali.
C’è una menzogna profonda che si annida nella nostra esperienza umana, anche in quella individuale. È latente, non si avverte e bisogna farla esplodere presto. Siamo in condizioni storiche perché questo avvenga. Per poter accogliere un messaggio che si presume abbia una vera universalità, dobbiamo ripartire dall’accettazione della condizione umana di tutti i popoli. Gesù ha offerto le misure della verità a partire dalla condizione umana. Ha posto, come proposta perenne di liberazione, la legge del dono di sé, cioè della conoscenza oblativa. Se un uomo è del tutto libero di sé, non è mai un disperato. Chi vive in uno stato oblativo non ha ragione di essere disperato, perché la speranza allarga le sue tende, riprende le misure sul mondo.
“Quando Gesù ebbe finito, preso l’aceto disse: “Tutto è compiuto”: abbassò il capo e dette l’ultimo respiro”. Accanto alla croce ritroviamo un’idea feconda, che ad un certo punto, ed è difficile dire perché, si è come inabissata. Ci è capitato come se, dopo aver salito di notte una scala innumerevoli volte, una notte non avessimo trovato più la ringhiera.
L’idea che troviamo accanto alla croce è che la vita di ognuno di noi ha un messaggio da dare agli uomini ed è un’opera compiuta e non un mucchio di pietre. Quanto avviene sulla croce non è l’unica cosa assurda, irrazionale, caotica in mezzo a tante cose che hanno un disegno. Apparteniamo alla generazione di Pirandello, di Gide, di Kafka: abbiamo finito per accettare il nostro destino di smarriti, di perduti, in un mondo fatto di colori, di suoni, del tutto impersonale. Abbiamo finito per accettare questo destino di schiavi accecati che girano in cerchio dando movimento ad una mola più o meno pesante. Facciamo molta strada infaticabilmente, ma giriamo in tondo. È un anello dal quale usciamo solo con la morte, quando un altro schiavo prenderà il nostro posto. Chissà: la civiltà supertecnica ci ha invaso completamente e ci ha abituati alla rinuncia, al lavoro individuale, quello che comincia e termina in noi. Siamo rassegnati a stringere un bullone tutta la vita.
Siamo perciò diventati “carnali nel nostro spirito”, che anche alla vita spirituale, ai suoi ideali, ai suoi risultati attribuiamo la stessa vicenda.
Gesù dall’alto della croce ha fatto scendere un’idea che è strana per noi: “Tutto è compiuto”. È importante che Gesù dichiari una vita compiuta, la sua, che finisce nel fallimento, nella sconfitta. Non c’è affermazione più spirituale di questa. Perciò una vittoria spirituale, una vita ben riuscita, non si riconosce dal suo successo esterno, ma dalla sua fedeltà interiore, da una coerenza intima, invisibile e conosciuta appena dal protagonista.
Sulla croce nessun angelo conforta Gesù. Eppure sottomesso all’impossibile, il suo spirito non è demolito, non è vinto dall’orrore. Perciò lo vincerà. La libertà, la salvezza stanno qui. Egli sa rimettere la sua vita nelle mani del Padre: sì, del Padre che sente perduto (con una preghiera, dunque, che permette anche all’ateo di pregare). E sa promettere vita al ladrone pentito. Mentre gli tolgono la vita, lui la assicura libera e piena all’uomo che l’ha sprecata. Il suo spirito è più grande della tortura e della morte. Per questo crediamo che è risorto e dà la vita ai disperati.
Il bacio del lebbroso
Il discorso si è fatto difficile e per me eccitante. Quello che può rendere significativa la nostra fede, la nostra vita, non è assolutamente la scelta dei poveri, ma è questa capacità di fare del povero che ci viene incontro il contenuto della nostra storia e della relazione con il trascendente. Tutti i biografi di Francesco d’Assisi cominciano la sua storia dall’incontro con il lebbroso che da estraneo e separato egli rende prossimo. L’energia che lo muove all’abbraccio è la consapevolezza di essere uno che ha fatto del lebbroso un separato, un lontano. Il volto dell’uomo segnato dalla morte, accusandoci, ci offre la possibilità di scoprire l’amore come unico senso della vita.
È naturale, perciò, che ogni generazione di giovani ricerchi coloro che sono morti in esilio, in carcere, nell’insuccesso, stroncati dalla violenza. Perché si può vivere senza pane, ma non senza fede, quella fede che diventa veramente e profondamente la ragione di vivere.
Agosto/settembre 1994