La gioia di esserci
“Oh, mia anima coraggiosa!
Più lontano, più lontano fai vela!
Oh gioia che osi, ma sicura! Non sono tutti questi
mari di Dio?
Oh più lontano naviga, più lontano, più lontano!”.
(Walt Whitman)
Una sete di rinascita
Chi ha smorzato i nostri colori? Chi ha spento la luce originale del nostro diamante e chi ha inaridito e disseccato la terra, speranza primaverile, afflato rigoglioso e verdeggiante della nostra esistenza? Qualcuno che ci vuole uguali, omologati, “in bianco e nero”, obbedienti, controllabili. E allora si apre un tunnel di buio, angoscioso e snervante; si alza un grido. Una corsa e un grido disperato di rabbia, di dolore, di ricerca di conferma e di amore. Una domanda di acqua viva, di senso nasce bruciante nel profondo di ogni esistenza che non riesce a saziarsi di risposte banali, inappaganti e forse manipolate per far dimenticare che c’è… più in là… un senso. Che si può essere liberi. Perché dove c’è libertà il controllo e il potere non possono nulla. E questa eventualità disturba; è scomoda. Meglio una catena che un paio d’ali. Poi all’improvviso può arrivare un flash, una sferzata frizzante e benefica, uno schiaffo d’amore, paradosso indubbio ma decisivo, come tutto ciò che ti cambia la vita: la presa di coscienza di sé. Lo specchio che hai di fronte – non ha un nome preciso, neanche un volto definito, ma è il primo miracolo di cui essere grati – ti mostra a te stesso. Qual è la tua immagine? La tua prima identità è il miracolo di un corpo, la prima grande conferma che ci sei. “La gente percorre il mondo di questi tempi, senza neanche ricordare di possedere un corpo che ha vita, e c’è paura nel mondo, c’è paura delle parole che designano il corpo e si parla benevolmente dei panni […] di vestiti”. (da Pablo Neruda, Residencia en la tierra. I) Panni e vestiti per celare la primaria verità, oltraggiata, troppe volte annullata così come si annullano, rendendole innocue le vere immagini delle persone, appiccicando modelli multimediali, etichette e ruoli, incatenando liberi voli! Non è un caso essere qui con queste mani, con queste gambe, con questi occhi. È la prima conferma che ci sei. Il primo segnale che mostra forse la via per uscire dal buio, un passo alla volta.
Esserci come “segno”
“Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. (Gen. 1,27) Riprendere in mano la propria identità primaria, la prima immagine di noi a noi stessi passa necessariamente attraverso la accoglienza del dono fattoci di un segno, di una differenza indispensabile al mistero di un’unione vitale. Indispensabile per realizzare la gioia di essere promessa d’amore incarnata. Io sono qui, come uomo, come donna e realizzo la bellezza, la potenza di questo dono, che il mondo banalizza, mercifica, offende nella sua più pura e meravigliosa significanza, nella sua grande e misteriosa dignità. Io posso fecondare la vita, sono un uomo, un a in viaggio verso una donna, un b che può accogliere e nutrire l’esistenza. Il mio esserci ha un senso e lo trova nella mia prima e bellissima originalità. Io posso portare il meraviglioso messaggio del mio essere donna, del mio essere uomo e far fiorire i deserti della vita.
Coscienza di tutto il proprio essere
Nel viaggio alla ricerca di se stessi, in questo cammino di riappropriazione, la bellezza e l’armonia rivelano l’equilibrio dinamico tra le nostre energie. Il mio corpo è fonte e via di transito di istintualità e razionalità, di affettività e di sessualità, di intelligenza, sguardo profondo – intus legere – nell’essenza delle cose e sapienza, conoscenza gustosa e amorosa di me stesso e delle altre creature. Siamo ricchi di energie da armonizzare. È un gioco dinamico con gli altri esseri e chiama in causa anche il mio io più profondo, la mia identità inconscia, con la quale rendo possibile il dialogo della mia vita con il Creatore della Vita. E la sintesi di tutto questo non può che portare ad un’esplosione riconoscente e irrefrenabile di gioia.
“La gioia della mia anima che si appoggia bilanciata
su se stessa, che riceve identità attraverso le materie
e amandole, osservando i caratteri e assorbendoli,
la mia anima che in vibrazioni mi è restituita da loro,
vista, udito, tatto, ragione, articolazione, paragone,
memoria e simili,
la vera vita dei miei sensi e della mia carne che trascende
i miei sensi e la mia carne,
il mio corpo fatto di materia, la mia vista fatta dei miei
occhi materiali,
mi hanno provato oggi senza cavilli che non sono i miei
occhi materiali a farmi vedere,
né il mio corpo materiale che alla fine
ama, cammina, ride, urla, procrea […]”.
(da Walt Whitman, A song of Joys).
Non sono solo i miei occhi, non sono solo le mie mani, non è solo la mia mente, ma è tutto il mio essere, sintesi armoniosa e bellissima che deve realizzare la promessa incarnata d’amore pensata per me dal Creatore della Vita.
Il mio “tu” necessario
Questa presa di coscienza riconciliata di se stessi, della propria armoniosa presenza corporea e spirituale, non basta a se stessa. Ha bisogno del proprio “tu”. Vive per donarsi. Non può ruotare egocentricamente su se stessa disgregandosi, ma anela profondamente al dialogo con il proprio “complementare”. Troppe volte, proprio perché la sete di senso, di conferma della propria identità negata da condizionamenti sociali, culturali, religiosi, familiari ci stringe la gola, chiediamo all’altro una risposta che fatichiamo a trovare in noi stessi. Formuliamo a chi non può darci una risposta una domanda erronea. Dialogo, relazione d’amore non è richiesta di colmare un vuoto. Non è appoggiarsi a peso morto ad un’altra persona per tentare di trovare fuori di noi la nostra verità, o per paura di camminare da soli. L’apoteosi della danza è danzare insieme, non illudersi di danzare perché qualcuno ci porta in braccio mentre danza. Siamo strumenti meravigliosi. Ma dobbiamo lavorare su noi stessi per accordare al meglio le corde di un violino che necessariamente, come un richiamo del cuore, sarà in grado di duettare con un pianoforte altrettanto ben accordato e celebrare la Vita con una melodia meravigliosa. È essenziale riappropriarsi della potenza di significato del nostro corpo, del nostro cuore, della nostra intelligenza, alla luce di un disegno d’amore del Creatore di Vita, per poter dialogare con un’altra meravigliosa creatura. Un dialogo fatto non solo di parole, di domande senza risposta, di paranoie in cui nulla basta mai, ma un dialogo di mani e sguardi, di silenzi e poesia, di gesti e di pensieri consapevoli della bellezza e della necessità vitale di un’unione tra due messaggi illuminati d’amore. Solo così si costruisce insieme il capolavoro di due vite che si incontrano perché non potrebbero fare altrimenti che questo: camminare insieme.
“Il nostro Padre che è nel cielo ci guarda […]
e da tutta l’eternità, io credo, ci ama mormorando:
“Se vogliono, domani, insieme saranno uno”.
È il suo sogno di Padre,
sarà la nostra decisione di Figli”.
[Michel Quoist]
A quest’incontro assiste il creato, in un silenzio commosso e benedicente per il meraviglioso dono che due creature, un uomo e una donna, unendosi restituiscono al Creatore della Vita, in una danza della Meraviglia che è mistero, respiro, rendimento di grazie. Gioia di Esistere. Amore.