La costituzione, regola e limite al potere
1.
Scampato il pericolo di una complessiva riscrittura della costituzione – perché tale era, per quantità e qualità normativa, il testo di revisione costituzionale approvato nella scorsa legislatura dal centrodestra – credo sia necessario rafforzare gli argini che pure hanno tenuto in occasione del referendum del 25-26 giugno scorso. La tendenza alle grandi riforme costituzionali è, infatti, una ripetuta tentazione trasversale alle forze politiche. I pericoli di nuove esondazioni costituzionali, dunque, non è detto siano definitivamente alle nostre spalle.
Il modo migliore per iniziare è quello di recuperare quale patrimonio condiviso il senso profondo del costituzionalismo moderno, di cui la nostra Carta fondamentale è espressione: la costituzione come regola e limite al potere.
2.
Le moderne carte costituzionali [come ricorda recentemente Valerio Onida, nel suo appassionato saggio La Costituzione, Il mulino, Bologna 2004] nascono come un patto «tra chi detiene il potere, e si impegna a rispettare e garantire i diritti, e i soggetti di questi diritti, che riconoscono l’autorità in quanto si impegna a rispettare il patto». Possono cambiare i contraenti dell’accordo: il sovrano e il popolo, lo stato federale e i singoli stati federati, le forze politiche e sociali che si riconoscono in «qualcosa di stabilito» (secondo l’etimo del nomen «costituzione»). Ma lo scopo della Carta (charter, in inglese, sta per «contratto») resta sempre il medesimo: perimetrare e regolare il potere. Anche quando è nella titolarità del moderno sovrano, il popolo.
Sembra un paradosso: «la Costituzione, frutto della volontà del «popolo sovrano», pretende di limitare il potere dello stesso popolo di modificarla in via legale». Ma paradosso non è: il costituzionalismo moderno non si risolve nell’assolutismo democratico, non eleva la sovranità popolare a unico assorbente valore, il suo obiettivo è garantire il compromesso tra interessi diversi e tra diverse visioni del mondo. Ecco perché nemmeno la sovranità popolare può dispiegarsi liberamente, ma solo – come prescrive l’art. 1 della nostra Carta fondamentale – «nelle forme e nei limiti della Costituzione», testo sottratto alla disponibilità della sola maggioranza politica (perché patrimonio di tutti), addirittura immutabile in alcuni suoi principi irrinunciabili e perciò sottratti – come ha stabilito la Corte costituzionale – allo stesso potere di revisione costituzionale.
Parafrasando Onida: «Se c’è un sovrano assoluto, sia pure esso il popolo, non c’è Costituzione».
3.
Si spiega per questo il carattere compromissorio della nostra Costituzione, erroneamente contestato come fosse un peccato originale, quando invece rappresenta il dato strutturale proprio di tutte le carte costituzionali che sono state capaci di durare nel tempo.
La logica di fondo di una Costituzione che voglia operare come regola e limite al potere deve essere inclusiva: deve, cioè, permettete il massimo di inclusione possibile, sul piano delle idee, dei valori, degli interessi presenti tra le forze contraenti il patto costituzionale, travasandoli in principi, regole e meccanismi giuridici che diano a tutti la garanzia di presenza e di partecipazione nel circuito politico istituzionale.
Lo scopo perseguito non è quello «assiologico» di fare della Costituzione una tavola di valori gerarchicamente ordinati, moderno decalogo laico. Lo scopo non è quello «egemone» di tracciare in Costituzione un progetto di società ideale che aspetti semplicemente una sua implementazione attraverso la legge parlamentare e l’azione dei vari organi dello Stato. Ammaestrata dalla durezza della storia e dalle sue pagine più tragiche della shoah e dei gulag, molto più realisticamente, la Costituzione persegue una finalità in negativo: indicare i princìpi che non possono essere sacrificati totalmente (e non quelli che devono prevalere), realizzare il consenso necessario sommando (e non selezionando) i valori e gli interessi di tutti i contraenti del patto costituzionale.
Ecco perché [come efficacemente osserva Ernesto Bettinelli, nel suo recente saggio, altrettanto appassionato, La Costituzione della Repubblica italiana. Un classico giuridico, Bur, Milano 2006] «raramente gli uomini delle Assemblee Costituenti appaiono trionfanti alla fine del loro lavoro.
Normalmente sono solo moderatamente soddisfatti», perché le volontà di ciascuno si stemperano necessariamente nel confronto, nelle concessioni reciproche, nel compromesso.
4.
Il risvolto della natura compromissoria della Costituzione è, dunque, il pluralismo (politico, sociale, religioso, culturale, informativo) che fa della nostra una Costituzione tollerante.
Ma non ingenuamente irenica.
Il dissenso ideologico, il conflitto sociale, la dialettica politica vanno garantiti. Ma non c’è posto per gli alfieri di contenuti assiologicamente esclusivi. Verso gli intolleranti, la Costituzione pluralista deve essere intollerante, se non intende tradire la sua funzione di regola e limite al potere.
Si spiegano così – nella nostra Carta costituzionale – il riferimento al «metodo democratico» dell’art. 49, il divieto di associazioni segrete o paramilitari dell’art. 18, come anche il «divieto di ricostituzione del partito fascista» della XII disposizione transitoria finale. Sono tutte previsioni costituzionali che ci ricordano come il confronto politico, sociale, ideologico all’interno dello Stato democratico pluralista è e deve essere nonviolento perché veicolato da un solo strumento: il dialogo.
La dialettica dialogica (che già Platone chiamava, nel Sofista, «la scienza degli uomini liberi») informa di sé i momenti decisivi di uno Stato democratico: il confronto di idee nella sfera pubblica, la competizione elettorale, il dibattito parlamentare, la stessa dialettica processuale tra accusa e difesa. Chi al dialogo sostituisce la violenza o le armi, è nemico della società aperta che la Costituzione pluralista intende garantire.
5.
Se mai l’espressione – di casa in altri paesi, straniera in Italia – «patriottismo costituzionale» ha un senso, è quando indica la lotta e l’impegno a difendere l’idea di Costituzione quale regola e limite al potere.
L’esito del referendum costituzionale del giugno scorso, sotto questo aspetto, è stato positivamente sorprendente.
Positivo per il suo effetto di blocco. Sorprendente per l’alta partecipazione al voto, pure in assenza di un adeguato dibattito pubblico e di un’informazione all’altezza della posta in palio. Ripartiamo da qui, con il massimo di consapevolezza possibile.
Andrea Pugiotto ordinario di diritto costituzionale università di Ferrara