La coscienza del limite. Terapia dell’imperfezione (applicazione)
La parabola del figlio prodigo
Gli atteggiamenti assunti dall’uomo nei confronti della “coscienza del limite” vengono esemplificati nel racconto della parabola del figlio prodigo: cap. VI di Onora il tuo limite (cfr. pure Liberaci dalla perfezione, p. 60 ss.; Una terapia per la persona umana, pp. 99-105; 153-157).
La coscienza del proprio limite e della propria indigenza è “la più grande intimità che l’uomo possa raggiungere con se stesso. Questo ri-conoscimento è creativo nel senso pieno del termine: ricrea l’essere, non lo incrimina. Questo ri-conoscimento riscatta e sostiene l’essere, lo ri-crea. Non reca danno alla condizione esistente. Esattamente al contrario, la coscienza del limite offre calore all’essere fragile dell’uomo… Davanti al difetto la coscienza del limite non dà l’ultimo colpo all’essere mettendo in evidenza l’errore, ma lo rammenda sottolineando il perdono. Ciò che sorprende nella coscienza del limite è la sua capacità di arrivare a reclamare dei beni per il ‘colpevole’ e di ‘fare festa’”.
La parabola del figlio prodigo viene dunque analizzata come un “documento ufficiale” sulla coscienza del limite. Il segreto della parabola è il perdono: perdonare è la forma più terapeutica e più rivoluzionaria che questa storia reca all’umanità. Il linguaggio del limite, nel quale rientra la parabola, è abile nel captare quella parte molto estesa della vita che si presenta vulnerabile, inevitabilmente perdente e apparentemente insensata. La parabola difende così la inutile essenzialità della vita. In essa le ragioni del torto prevalgono sulle ragioni della ragione. Chi perde è lo stesso che vince e chi non perde è lo stesso che in definitiva risulta perdente.
Sottrarsi ad ogni controllo
La parabola mette in evidenza tre prototipi di schemi mentali in rapporto al limite: il figlio minore incarna la figura di chi elude il limite, non ne tiene conto, lo ignora; il padre si presenta come il prototipo della coscienza del limite; il fratello maggiore si rivela il prototipo del rifiuto del limite.
Stufo del panorama d’ogni giorno, della protezione familiare, soffocato dal mondo che lo circonda, il figlio minore ‘trasgredisce’ gli usi e costumi locali e chiede prima del tempo la distribuzione dell’eredità paterna. Disamore per la sua famiglia, desiderio di sottrarsi a qualsiasi controllo da parte dei suoi, voglia di andare incontro al massimo di novità. Sperimentò tutto quello che poté. ‘Vivere da dissoluto’ è un’espressione in cui la realtà supera ogni fantasia. Le cose si complicarono in maniera naturale. Il ‘figlio di papà’ andò a sbattere nei limiti della vita. Fino a quel momento non aveva ancora scoperto l’esistenza del lavoro, quando un padrone di porci lo mandò a pascolarli nei suoi campi. Badare a dei maiali, per un ebreo, era peggio che pulire cessi in un lebbrosario: stava praticamente consacrando la vita (la sua perla più preziosa) ai porci! Gesù accentua l’estrema condizione di pena in cui si trova il protagonista: “Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava” (Lc 15,16). ‘Nessuno aiuta’ significa che tutti sono pronti a condannare, tutti accusano. Quale il passo successivo, che il pubblico già prevedeva e pregustava? La colpa! E la parabola soddisfa questa imperiosa necessità degli uditori (15,17-19). Quale intima soddisfazione suscita in chi si considera giusto il riconoscimento della colpa da parte dell’altro! Non solo: riconosciuta la propria colpa teologica e antropologica (“Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te” 15,18), il traviato, a consolazione delle persone pie, esprime la più completa disistima della propria persona: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni” (15,19).
E ora, la punizione esemplare
Ma quando il giovane s’incammina verso suo padre, e l’uditorio lo segue per non perdersi l’incontro, il momento della punizione che tutti si aspettano, ecco la scena cambiare improvvisamente. La figura che all’inizio della parabola era rimasta completamente nella penombra e nel silenzio (un silenzio… scandaloso: nessuna osservazione, nessun ostacolo, nessuna indicazione perché il figlio non abbia a perdersi… Ma che tipo di pedagogia usa questo padre? Conosce davvero la psicologia del figlio?) balza ora in primo piano: “Quand’era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (15,20). È un anziano, ma si mette a correre. Si trovava lontano, ma lo vide. Invece di esprimere risentimento, prova compassione. Non rimane freddo, come solitamente la persona offesa, ma gli si getta al collo, lo abbraccia e lo bacia. Un grande scombussolamento dev’essersi prodotto nell’animo degli ascoltatori: perché il padre riceve con tanta cordialità un simile figlio? Da dove arriva questo parassita? Non ha forse condotto una vita disordinata all’estero? Può darsi sia solo il saluto, e quando il figlio fa la sua confessione (15,21), la gente pensa che adesso verrà il bello. Invece la sorpresa giunge al colmo: nella volontà del padre non compare un pizzico di punizione. Al contrario, sembra preso dalla precipitazione di far festa: “Presto, portate qua il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi” (15,22). Ogni azione del padre va contro le aspettative dell’uditorio. Il figlio minore confessa la sua colpa e il padre non la “riflette”. Il padre non solo si astiene dal condannare, ma perdona alla grande (15,23). Alla conoscenza segue il perdono. Il padre dota il figlio di ciò di cui ha maggiormente bisogno: vestito, per ricuperare la sua condizione “regale”; anello, per ricordare la sua condizione di figlio; calzari per non sentirsi schiavo, ma libero.
Silenzio e compassione
Il padre si presenta come il prototipo della coscienza del limite. È l’unico personaggio della storia totalmente nuovo. La sua comparsa nella narrazione è preceduta o accompagnata dal silenzio. Per quale motivo non si arrabbia contro il colpevole? Perché quando il figlio inesperto gli chiede la sua parte di eredità non gli rovescia addosso tutta la sua sapienza? Il silenzio fa parte della pedagogia del padre. Non è una pedagogia complicata, ma certamente una pedagogia che ammette la complicazione. Non è un padre che “programma” i suoi figli, ma che permette a ciascuno di diventare adulto, di correre i propri rischi, di credere e inventare la propria vita. Figli capaci di scegliere da soli. È la pedagogia dell’uomo libero, che diventa responsabile attraverso la propria libertà. Libertà e responsabilità sono inseparabili dalla coscienza del limite. Ma in questo caso ‘limite’ significa preferenza per l’umano. Il sistema mentale del padre si esprime non a parole ma a fatti, nell’amore di compassione. L’atteggiamento valido davanti a un uomo, minore o maggiore che sia, è il rispetto della sua indigenza. L’esperienza dell’altro dev’essere oggetto di comprensione e di compassione. La pedagogia consiste nell’insegnare a vedere le cose non in base al moralismo della ragione o all’intellettualismo della perfezione, ma in base alla compassione.
Il perfezionista
Il terzo personaggio della parabola, il figlio maggiore, si rivela il prototipo del rifiuto del limite. Ancorato alla conoscenza dell’errore, egli finisce per condannare il colpevole e per esaltare se stesso, per il fatto di non essersi infangato. Legato al senso del dovere, il perfezionista richiede l’altrui colpa perché è un soggetto privo di misericordia. Mentre per il padre, il minore era tornato più ricco di quando se n’era andato (se n’era andato ignorando il limite, tornava col limite come compagno della sua esistenza), per il fratello maggiore, il minore era tornato più disgraziato che mai. C’è qualcosa di differente nella vita del fratello minore. Non c’è nulla di cambiato nella vita del fratello maggiore, che continua nell’ignoranza della realtà più ovvia e quotidiana della sua esistenza: “Tu sei sempre con me – risponde il padre al primogenito – e tutto ciò che è mio è tuo”. Aveva tutto a portata di mano. Era proprietario di qualcosa di più grande del patrimonio e dei beni che amministrava: possedeva la comprensione del padre per un figlio che si riteneva perfetto. Ma non riconosceva questa verità, non la vedeva. Ragionava troppo, intuiva troppo poco.
Riassumendo, possiamo vedere nei tre personaggi della parabola gli elementi o istanze presenti nel nostro sistema mentale. Il figlio minore è l’istanza di evadere sovente dai confini della vita, istanza che permetterà una comprensione più profonda della vita, suscitando la dinamica dell’apprendimento mediante errori. Il figlio maggiore rappresenta la tendenza costante al rimprovero, l’inestirpabile istanza di diventare impeccabile: una vera pazzia che può venire in mente solo a una mentalità clericale. Il padre misericordioso è l’unica istanza capace di offrire compassione al minore e comprensione al maggiore, l’istanza della coscienza del limite. Il padre tollerò la possibilità dell’evasione; forse la sua stessa esperienza gli aveva dimostrato l’essenzialità dell’errore nella vita dell’uomo. L’istanza del padre misericordioso è la strategia per vivere con entrambi i figli: col volubile figlio minore e con l’intollerante figlio maggiore; con il disordinato e con l’ansioso di poter tutto controllare; con quello che fa male le cose e con quello che si accosta alla vita sulla base del “dovrei”; con quello che si avverta spontaneamente nel rischio e con quella parte stereotipata di noi che non ci dà il permesso di essere.
Concludendo: scienza, tecnica, compassione
Accogliere la propria indigenza diventa l’espressione etica più alta che possa esprimere l’uomo. Qualsiasi altro dovere viene al secondo posto; primo dovere è di essere un essere finito. In seguito all’incontro col padre – istanza che opera il miracolo dell’accettazione di sé – l’esperienza umana del figlio minore diverrà inseparabile dal perdono. Mentre il pentimento poggia sulla realtà dell’essere, la colpa, quando giunga a prevalere, umilia l’essere. La colpa ha le sue radici nella superbia dinanzi al limite, non nella verità della realtà. Quando l’uomo emette un giudizio di condanna contro se stesso si destina alla morte, all’abolizione di quello che è. L’odio di se stesso non è un merito; non perdonarsi è un peccato di lesa umanità. Contro la spiritualità della perfezione (distillata nel nostro sistema mentale dall’istanza del fratello maggiore), quella del figlio minore perdonato (perdono offerto dall’istanza del padre misericordioso) si converte in espressione della spiritualità della povertà. Riconoscere le nostre “frontiere” è il modo di praticare l’istanza del padre misericordioso. Quando ci offendiamo, sia a causa del figlio minore che del maggiore, non siamo misericordiosi. Se la compassione non abbraccia completamente la nostra realtà, non è una compassione salutare, ma formale e vuota.
Non c’è bisogno di conclusione (che sarebbe ancora, in questo caso, una ricerca di… perfezione concettuale). Solo il desiderio e l’auspicio che il vero dialogo interculturale (dialogo tra persone) associ alla necessaria ricerca di perfezione dei mezzi per vivere, voluta dalla scienza e dalla tecnica (homo sapiens e homo faber), la profonda e semplice accoglienza del limite della vita umana, perché i mezzi di civiltà abbiano sempre a servire la comprensione e la compassione per l’uomo “in carne ed ossa”.