La concezione modesta del dono

di Previdoli Giorgia

Volontari: ignare pedine di un secondo gioco
A proposto di volontariato c’è un discorso abbastanza diffuso negli ambienti connotati da una certa cultura politica, ma che a volte capita di ascoltare anche in strada o nei bar. Alcuni lo argomentano con dati e numeri, i più si limitano a sostenerlo e basta. Tema centrale di questa tesi sarebbe: il volontariato non è altro che una contraddizione. Nel tentativo di aiutare certe categorie di infelici ne crea di nuove, rendendo di fatto inservibile la mano d’opera specializzata in campo socio-educativo. I volontari, con la loro disponibilità, entrerebbero in concorrenza sleale con gli operatori sociali specializzati, specialmente con quelli appena laureati. Sempre con la loro disponibilità offrirebbero supporto indiretto a un sistema di welfare indirizzato verso il taglio progressivo della spesa pubblica.
Con questo tipo di tesi ci si confronta anche quando si discute del nuovo servizio civile nazionale. Occupandomi per lavoro di servizio civile, spesso mi capita di incontrare gruppi di giovani. Su questo tipo di proposta circolano informazioni frammentarie, ma è diffuso un certo scetticismo. Molti sono pre- venuti, pensando che il servizio civile, più ancora del volontariato, sia un modo per coprire posti di lavoro vacanti a basso costo. Da un po’ di anni frequento entrambi questi mondi. A volte ho effettivamente notato che in alcune orga- nizzazioni i volontari sono considerati risorse da spremere. Possono avvenire alcune degenerazioni. Ma questo vuol dire che volontari e giovani in servizio civile siano le ignare (o consapevoli) pedine di un gioco allo sfruttamento.

Fuori dagli schemi
Forse siamo abituati a considerare il volontariato in maniera riduttiva e questo rischia di limitare la portata della nostra visione. Uscendo da questi steccati rileviamo che le azioni volontarie e gratuite diventano molte e hanno in comune la libera adesione. «Se fosse possibile, basterebbe misurare l’importanza dei doni in una società per conoscerne il grado di libertà, e questo sia a livello microsociale sia a livello macrosociale. Ogni dono è un gesto che amplia lo spazio di libertà dei membri di una società» (Jacques T. Godbout, 1992, L’esprit du don, ed. it. 1993, p. 238). Ogni azione non richiesta, non prevista, non necessaria, come ad esempio il sorriso di un impiegato mentre esercita le sue mansioni, è espressione di libertà. Arricchisce gli individui e la collettività nella misura in cui apre ad una relazione che può permettersi di deviare dal motivo, magari funzionale al raggiungimento di uno scopo tecnico (ad esempio la corretta compilazione di un modulo), per cui era nata. Questo però è la bellezza del dono. E il tema del dono come agente scatenante di rapporti e comunicazione affascina da sempre etnografi e antropologi. Per questo alcuni tipi di critiche al volontariato mi lasciano perplessa. È come se chiedessero a tutti di smetterla di essere disponibili, ma tale richiesta sarebbe forse grottesca.
Degenerazioni a parte, ho incontrato molti volontari e molti giovani in servizio civile profondamente soddisfatti. Credo abbiano provato la sensazione di essere trattati come persone, di essere accolti, e cosa non secondaria, di essere diventati, in qualche modo, importanti. L’accoglienza dei volontari, più che dall’organizzazione, viene fatta, di solito, da quelli che sono i destinatari del servizio. Sono loro i primi a presentarsi e a dare il benvenuto, naturalmente ciascuno a modo suo. C’è chi accoglie sfidando, chi aprendosi subito, chi restando in silenzio. Ma i nuovi volontari notano che la loro presenza non passa inosservata. Questa credo sia la prima gratificazione, che, chi opera come volontario, può provare. Penso sia una gratificazione che nasce dal piacere che si prova quando siamo riconosciuti.

I pericoli di un rapporto asimmetrico
Questo tipo di gratificazione, però, secondo me può portare il servizio alla stasi e mortificarlo sino alla immobilità. Tra chi è volontario e chi è «destinatario», il più delle volte si crea una relazione, un rapporto segnato da alchimie, difficoltà, abitudini contrastanti. Spesso si tratta di un rapporto asimmetrico. Il destinatario si può trovare in situazione di «inferiorità» per motivi fisici, sociali, economici. Per entrambi, questa disparità può trasformare la relazione in un vincolo, in una dipendenza reciproca. La persona in difficoltà ha bisogno dell’aiuto del volontario tanto quanto il volontario ha bisogno di essere utile e di aiuto a qualcuno. Il rischio è che il rapporto si fossilizzi e lo scambio sia condizionato all’accettazione di questa disparità come irrevocabile. Insomma, che non ci sia spazio per cambiamenti e novità.
All’inizio di quest’anno ho trascorso poco più di un mese in Inghilterra. Per me è stata la prima esperienza in un paese così «diverso» dal nostro. Ho sentito profonde differenze rispetto ai nostri modi mediterranei di gestire il tempo, lo spazio tra le persone, lo sguardo e le forme di cortesia. Una cosa che ho notato quasi subito è che (almeno in apparenza) non esistono «accompagnatori» per gli studenti disabili all’università. I campus si trovano in parchi sconfinati, all’interno dei quali si trova ogni sorta di servizio, dall’ufficio postale alla banca, dall’agenzia di viaggio alla libreria universitaria. E poi ci sono i servizi mensa.
Ho visto persone in grado di muovere una sola mano mettersi in coda con le loro sedie a rotelle, caricare il vassoio per la refezione, consumare con la massima naturalezza il pasto in compagnia dei loro compagni. Ho provato a trasporre la stessa scena all’Università di Genova. Oltre alle innumerevoli barriere architettoniche che avrebbero incontrato per raggiungere il primo bar nei pressi dell’Università, una volta usciti non avrebbero avuto possibilità di trovare un bagno a norma di legge nell’arco di un chilometro. All’università di Genova uno studente disabile che voglia frequentare i suoi corsi, che debba accedere al bagno, che voglia pranzare è obbligato ad avere un accompagnatore, stipendiato o volontario che sia.
Questo è ciò che più temo di certe organizzazioni di volontariato e di un certo modo di intendere il servizio. Il rischio cioè che ci si fermi alla sola risposta dei bisogni e si smetta di sognare una società in cui certi bisogni possono essere superati.