La città senza domande

di Cardini Egidio

È fin troppo facile, scontato e dozzinale dire che New York sia qualcosa che al visitatore è restato dentro. Molto più difficile è interpretarne la struttura, il profilo, l’umanità.

Sette giorni non sono nulla per stabilire un rapporto finanche superficiale e ordinario, perché l’immensità di New York è direttamente proporzionale alla forza soffocante dei suoi assordanti silenzi e perché New York ha la straordinaria capacità di comunicare il vuoto che si nasconde dietro il suo scintillio sfolgorante o accanto alla sua miseria sotterranea che esce dai vagoni e dalle gallerie bollenti della subway.

Non è possibile articolare ragionamenti su New York, visto che le mancano la tradizione, la solidità culturale e la coesione sociale delle città europee. New York sembra non parlare. New York può soltanto essere addentata e mangiata come una mela, gustata come una torta, sfruttata come una terra ricca e poderosa, percorsa con un senso di falsa liberazione.

New York e i matti

Mi hanno impressionato i matti: migliaia di fotografie inattese e completamente diverse l’una dall’altra. Perché così tanti spostati in questa città? Chi li ha generati? Chi li tiene in vita? Chi li trasporta?

New York porta i matti sulla sua mano, come creature nate da un parto colpevole. I matti sono la coscienza sporca di un popolo, perché nessuno nasce pazzo. Lo diventa in un sistema che lo aliena adagio adagio e lo conduce fuori da sé, in un atto di cattiveria. In questo caso è fin troppo facile emettere una sentenza chiara e indiscutibile.

A New York non c’è posto per le anime sofferte o per gli uomini deboli e incerti. Tuttavia, visto che dal suo sistema è difficile sfuggire, molti homeless (senza fissa dimora) si ritrovano sulla strada perché nessuno ha mai dato loro il respiro di un aiuto né ha mai impresso un segno di protezione.

E allora via con i deliri lungo la Fifth Avenue, via con i violini stonati agli angoli delle strade, via con quei tremendi e tristissimi soliloqui a voce alta nei vagoni della subway, via con quei sonni profondi sulle panchine di Central Park, via con una curva a destra e una a sinistra. Tanto a New York ci saranno sempre una curva a destra e una a sinistra.

New York e gli immigrati

Mi ha impressionato l’Immigration Museum. Ellis Island è una piccola isola sull’estuario dell’Hudson e ha rappresentato per decenni la porta dell’America. Centinaia di migliaia di persone, sbarcate dai bastimenti e filtrate con zelo e attenzione prima di essere divorate dall’America.

Uno si chiede come sia possibile che un emigrante, passato da Ellis Island e magari arricchitosi proprio nel cuore dell’America, possa essere considerato una vittima da divorare. Eppure io ho avuto la percezione che quell’isola rappresentasse l’ultima onda di un lungo viaggio, quella che ha definitivamente inghiottito e divorato chi scappava dalla miseria di una terra infame e povera.

Per un attimo mi sono immedesimato nelle donne e negli uomini che passavano da là. Li spulciavano come cani, controllavano loro la dentaura come ai cavalli, passavano in rassegna la loro pelle come con i conigli, ma per loro la Merica era la Merica. Merica, senza la A iniziale.

Mi hanno impressionato gli occhi degli ultimi immigrati: tutti identici, tutti ugualmente espressivi, tutti sottilmente tristi, ma consapevoli di non potere tornare indietro.

Se andate sul lungomare di Brighton Beach il sabato e la domenica, trovate una pletora di russi e di ucraini. Pochi sorrisi e tanti silenzi comunicativi. Non si può certo dire che un villaggio in riva al Volga o al Don sia più vivo e stimolante di quella spiaggia poco più che fluviale. Però avevi davanti un’umanità che anelava a una liberazione piena e che riceveva una liberazione zoppa. Meglio zoppicare che restare senza gambe. La loro Merica era un mare ventoso sulle cui rive sedersi e fare silenzio o chiacchierare a voce bassa, era un ristorante in cui mangiare il shush kebap senza la vodka, perché non ci sono abbastanza soldi per avere la licenza sugli alcoolici, era uno sguardo d’invidia verso il mafioso che si è fatto i soldi e adesso ha la donna giovane e bella.

Dio mio, la Merica… Che voglia che ti dà, la Merica… E chi se ne frega se ti licenziano oggi per assumerti domani, se non hai l’assicurazione sanitaria, se ti danno cinque giorni di ferie dopo quattro anni di lavoro, se lavori e ti pagano solo se ti chiamano la mattina, se sei sempre sospeso tra l’appartamento a Manhattan e i cunicoli della metropolitana.

Gli occhi degli immigrati trasfondono ansie pudiche e tenere. Se uno va in Merica, ha sempre una merda alle spalle. Se ci resta, significa che è disposto a sopportarne una meno sgradevole e che può dimenticare ogni attenzione verso ciò che è estraneo o diverso da sé pur di cavarsela. L’individualismo americano è raggelante, ma perlomeno consente di non sentire gli odori cattivi della propria terra d’origine.

New York e gli ebrei osservanti

Mi hanno impressionato gli ebrei. Non le vittime dell’Olocausto, non i poveri di Dio esaltati nella Bibbia, non gli eredi della tradizione profetica, ma i fondamentalisti e gli osservanti di Williamsburg o gli uomini d’affari di Wall Street, che si aggirano ovunque con quella sinistra kippah, portatori di un potere chiuso, ermetico e impenetrabile.

Quel copricapo così provocatorio non aveva nulla, ma proprio nulla, di spirituale e di trascendentale. Voleva soltanto comunicare un potere di casta, una condizione di parte, uno status inavvicinabile, un monumento a se stessi.

Circa il 10% della popolazione newyorkese è ebreo e naturalmente molti hanno saputo incarnare con intelligenza e misura la loro condizione. Purtroppo però oggi il numero degli appartenenti a queste fazioni religiose va sempre più crescendo e, con esso, cresce sempre di più il fossato che separa questo imbarazzante «resto d’Israele» dal popolo di New York e dal mondo.

New York e Satchmo

Mi ha impressionato la casa di Louis Armstrong. Ah, Satchmo. A lui sì che ho potuto dire: «Oh, yeah!».

Satchmo è New York e la sua anima, separatasi dal corpo nel 1971 (e io me lo ricordo ancora), vive ancora sulla 107th Street di Corona, in fondo al Queens. Ci sono andato, unico turista bianco europeo, con la subway numero 7 in una mattina luminosa e chiara. L’ho cercato in quel quartiere, ormai tutto latino-americano, di casette basse e povere. Alla fine l’ho trovato.

Sono entrato nella sua casa-museo, dove ormai si avventurano solo neri o americani degli Stati del Sud. «Italian?» – mi hanno chiesto increduli. «Yes, italian» – «Oh, yeah, Materazzi!» – mi ha detto un poliziotto. Stramaledetto football…

Poi ho seguito una visita guidata in cui non capivo quasi nulla, ma non me ne importava niente. Vedevo il suo letto, i suoi asciugamani, il suo paleolitico forno a micro-onde, il suo studio. Ascoltavo la sua voce rauca e le sue risate, ascoltavo la sua musica. «Oh, yeah, Satchmo!».

Pensavo a me bambino e al sogno della California. Pensavo a Tito Stagno e allo sbarco sulla Luna. Pensavo a Bob Kennedy morto assassinato, con la moglie Ethel disperata sopra il suo cadavere. Pensavo alle Lincoln e alle Plymouth enormi sulle strade dei gangsters. Pensavo a Lucille, sua quarta moglie.

«I remember» – sapevo soltanto dire alla mia guida.

Suonami qualcosa, Satchmo

Sono venuto via con la luce di Satchmo negli occhi e la musica della sua tromba nelle orecchie. Sono partito da una città che ha quasi dimenticato gli uomini come Satchmo, eroe felice di un sistema infelice.

Che paura che mi ha fatto New York. Ancora adesso mi sveglio con il rumore dello sferragliare assordante della subway e con l’immagine del silenzio di una città che mangia hot dogs, che beve birra nascondendola dietro un pezzo di carta per non dare scandalo, che è tentata dagli uffici di reclutamento delle Forze Armate che promettono studio e lavoro e che invece mandano a morire in Iraq, che è invasa da matti, ebrei, immigrati tristi, insegnanti di religione italiani e da ogni genere di umanità che parla solo di lavoro e di soldi.

Mi hanno fatto impressione molte cose di New York, ma una, sopra tutte, mi fa venire ancora i brividi.

New York è una città senza domande.

Non se le fa nessuno. O per paura o per incapacità o perché non c’è tempo o semplicemente perché a New York, città senza anima, farsi domande non serve.

Suonami qualcosa, Satchmo. Prima di andare a dormire ho bisogno di sentire la tromba immortale del tuo jazz e la tua voce profonda. Le tue risate aperte sono sempre state la risposta più bella alle domande, che io mi faccio sempre a milioni e che invece New York non si è mai fatte.