Interculturalità minima
Interculturalità è certamente uno dei motivi ispiratori, degli spunti originari di “Madrugada”, una vocazione in cui essa si riconosce. Interculturalità in senso proprio è ricerca di dialogo tra culture diverse: dialogo necessario, fecondo, straordinariamente umano ma proprio per questo difficile, perché le culture diversificano le persone legandole a tradizioni, gruppi umani, popoli, razze, religioni diverse.
Tale difficoltà tuttavia nasce da lontano, è qualcosa di più elementare e fondamentale. C’è un tipo di interculturalità che vorrei chiamare minima, tutta intrisa di quotidianità, in cui non sono le culture a diversificare le persone ma sono le persone a differenziare culture oggettivamente identiche. C’è insomma in ogni cultura un fatto irriducibilmente personale, per cui l’essere umano trascende la cultura intesa come catalogazione antropologica (il “noi culturale” di gruppi umani, etnie, popoli diversi). Facendo infatti sua e vivendo una determinata cultura, la persona le dà sfumature, modalità, accentuazioni che ne fanno un “proprium” personale.
A questo punto è chiaro come le difficoltà del dialogo interculturale (culture oggettivamente diverse) comincino da lontano: dalle stesse difficoltà sperimentate nel dialogo interpersonale nell’ambito di una identica cultura che viene in realtà espressa in culture personalmente differenti. La cultura non è un marchio di fabbrica: la persona elabora artigianalmente e artisticamente (creativamente) la “sua” cultura.
Pensiamo al fenomeno culturale elementare della lingua. Parliamo una stessa lingua, usiamo gli stessi termini, ma ogni nostra parola ha un accento particolare che la differenzia da ogni altra, dandole un volto interiore inimitabile, un’anima irripetibile, traducendo diversità di storia, situazioni, caratteristiche temperamentali, ecc. È proprio il mancato riconoscimento della singolarità della parola che impedisce spesso un dialogo autentico con gli altri. Gli “altri” non sono una categoria, vengono sempre “uno dopo l’altro”. Non sarà difficile constatare come persone che si prodigano in mille attività sociali, anche di grande valore, affrontando problemi di ordine scientifico-concettuale, giuridico-istituzionale, etico-ideale, economico-finanziario, organizzativo-pratico, mietendo giusti riconoscimenti collettivi di vario genere, quando poi si tratta del “tu-per-tu” con le persone che hanno a fianco (coniuge, figli, persone dedite alle mille attenzioni quotidiane dovute alla propria persona…) si rivelano prive di ascolto e di comprensione, di empatia, di dialogo. Dialogano nell’ambito dei problemi culturali comuni, dove le persone si ritrovano oggettivamente in un “noi” culturale, ma non dialogano quando si tratta di comunicare col “tu” portatore della cultura singola, che ci interpella e ci coinvolge personalmente nell’avventura di una sempre nuova riscoperta di sé e dell’altro insieme. Perché, tra l’altro, il “tu” svela sempre una realtà che l'”io” ha nascosta dentro di sé ma è incapace di darsi da solo. La cultura umana è sempre dialogica.
Interculturalità minima significa dunque per me interculturalità delle persone, che chiamarei anche di casa nostra: una casa che, capace di rispetto e di comunicazione al suo interno, è anche luogo di accoglienza e di incontro. Di tale interculturalità vorrei qui ricordare tre situazioni o condizioni tra le più comuni, ma non per questo banali, del vivere umano. Situazioni che portano alla interculturalità dei sessi (uomo-donna) e delle età della vita (bambini-adulti e giovani-anziani).
Uomo-donna
La cultura umana è sempre vissuta ed espressa al maschile e al femminile. Sembra lapalissiano, in realtà costa molto riconoscerlo. Maschilismo e femminismo dicono: o al maschile o al femminile. Una stessa constatazione di fatto, una stessa verità di principio, una stessa osservazione di dettaglio, una stessa impressione avrà sempre espressioni differenti da parte di un uomo e di una donna. Per questo, forse, il dialogo tra uomo e donna è così esigente e – anche e soprattutto quello coniugale – viene ben prima del sesso: non c’è un momento in cui lui e lei dicano, comunichino, vivano la stessa cosa allo stesso modo. Se mi identifico con la mia cultura “al maschile” al punto di non sapermi aprire a una cultura “al femminile” (e viceversa per la donna), il dialogo tra uomo e donna si risolverà in un accostamento e accumulo di impressioni, pensieri, valutazioni diverse senza alcuna affermazione nuova da condividere.
Il dialogo che dovrebbe essere il più fecondo rischia così di diventare il più povero e stentato, riducendosi a due monologhi spesso estranei l’uno all’altro. Di fronte alle sofferenze di tante separazioni, ci chiediamo tutti quale sia oggi la difficoltà di comunicare tra coniugi, soprattutto giovani. Tra i vari fattori vorrei indicarne uno attorno al quale mi sembra cristallizzino molti altri: il mancato riconoscimento dell'”altro/altra” nella sua modalità culturale. Si parla credendo di dire le stesse cose, ma in realtà si dicono cose diverse soprattutto quando, parlando delle stesse cose, uomo e donna non riescono a coniugare maschilità e femminilità della comunicazione culturale: è venuta a mancare la pazienza dell’ascolto, la volontà del dialogo.
Il maschilismo ancora imperante in tanti modi di pensare e sentire, condensati in tante forme di costume sociale, anche religioso… (penso, ad es., al maschilismo dei vertici ministeriali della Chiesa e a certo femminismo delle sue basi) esprime – insieme certamente a tante altre cose – questa sordità e cecità di fronte a una differente modalità culturale. Uomo e donna sono chiamati a colmare il vuoto derivante dalla domanda inespressa, spesso anche repressa, d’una cultura nuova, originaria, che non sia semplice somma di due culture, ma cultura coniugata. La difficoltà di tale dialogo, interculturale perché interpersonale, dipende dal fatto che uomo e donna non conoscono a fondo se stessi, ignorano l’altra parte di sé di cui sono portatori segreti e di cui il sesso opposto rinfaccia loro continuamente l’oblio.
Bambini-adulti
Dei bambini si parla molto; troppo poco ai bambini. Non si parla abbastanza a loro perché non si è capaci di ascoltarli. E non li si ascolta perché non si crede nel valore della loro cultura, che non è fatta, come quella degli adulti, di cose-oggetti e di nozioni utili, ma fondata su sentimenti vivi e relazioni con-la-persona. Si ha fretta di introdurre i bambini nel mondo dell’utile, delle verità pragmatiche, di farli entrare nel mondo dei grandi, farli ragionare come i grandi. È giusto e doveroso, è pedagogico aiutarli a diventare grandi, ma è deleterio volere che facciano i grandi.
Quanti adulti, quanti genitori hanno il coraggio di perdere il tempo con i propri bambini per re-imparare la sorpresa e la meraviglia di fronte al mondo dell’esistenza? Per re-imparare il linguaggio gratuito e inventivo della favola, linguaggio troppo presto smarrito nei meandri della razionalità calcolatrice? Qui i bambini sono decisamente più filosofi degli adulti e la loro cultura viene mortificata dall’idoltria dei “mezzi per vivere” al di fuori d’ogni “gratuità della vita” (gratuità che è anche libertà, gioco, finalità non utilitaristica, festa di condivisione).
Eppure anche negli adulti c’è questo bambino umiliato (questa cultura soffocata) che chiede di potersi esprimere, così come nel bambino c’è il desiderio e la speranza di conoscere il mondo dei grandi senza rinunciare alle proprie intuizioni e alla propria fame affettiva. L’ideologia del progresso proiettata nel mondo del divenire umano, della sua avventura nel tempo, stravolge facilmente il senso delle età della vita privilegiando il sapere positivo dell’età adulta. Cuiome se la vita dovesse superare tanti stadi inferiori per arrivare alle verità utili…utili a tutto!… tranne che a indicare il fine, il gratuito della vita. Perdere la propria vita con i bambini vuol dire ritrovarla. Certo, per noi adulti il tempo è prezioso, e ce n’è così poco…eppure quanto tempo perdiamo in sciocchezze. Il guaio è che abituiamo anche i bambini a perderlo come noi, in presunte “cose serie”.
Senza dire – last not least – che ascoltare e cercare di comprendere la loro “cultura”, oltre che permetterci il ricupero d’una parte vitale (spesso oscuramente confinata nel sottosuolo dell’anima) della “cultura adulta”, ci apre la via alla comprensione di tanto primitivismo di certe culture, quelle soprattutto che oggi ci si si affanna a presentare ai popoli evoluti come memoria preziosa di un altro vivere che reclama riconoscimento e riconoscenza, suscitando quel “cocente rimorso” che fa dell’etnografo il “simbolo dell’espiazione” (Lévi-Strauss).
Giovani-anziani
Le stesse verità espresse da un giovane e da un anziano sembrano a volte appartenere a mondi culturali così diversi! Cos’è più difficile per un giovane: tentare un approccio con giovani di altre culture o accostarsi seriamente a un anziano della sua cultura? Non c’è cultura fuori del vissuto personale e tale vissuto è essenzialmente connotato dal tempo: ogni cultura è storica nel cammino stesso dell’uomo.
Il giovane che nel dialogo accoglie e ascolta l’anziano acquista paradossalmente la memoria del proprio futuro, mentre l’anziano afferma nel giovane la speranza del proprio passato. Memoria e speranza, isolate, diventano rimpianto e illusione sterili; dalla loro coniugazione feconda nasce la tradizione vivente, l’umanità della cultura nel divenire della vita accolta e partecipata.
Un giovane che dialoga con un anziano si apre nel più profondo di sé alla prospettiva della povertà e del dono che si celano in ogni avventura umana, perché questo è il carisma dell’anziano: significare che il frutto maturo dell’esistenza è lasciarsi distaccare e offrire in umiltà, perché la pianta continui a dare altri frutti (…magari anche con innesti imprevisti). D’altra parte, un anziano che accoglie seriamente la presenza dei giovani riacquista il senso di conquista e di affermazione della cultura umana come comunanza di destino da progettare, costruire e rinnovare incessantemente.
Anche qui un giovane che rifiuta il dialogo con l’anziano non fa che rifiutare di scoprire se stesso in profondo: scoprire che il tempo di cui è intessuto il proprio cammino esistenziale è avventura umana originale ma non inizio assoluto, bensì un accogliere e riprendere in novità quello che, a sua volta, dovrà un giorno donare e trasmettere ad altri.
Vorrei sintetizzare queste riflessioni sommarie, che difettano del rigore delle analisi concettuali (ho dato per scontato il significato generale di cultura, nel senso dell’antropologia culturale, e di persona, nel senso dell’identità relazionata dell’essere umano; ho intrecciato i significati di dialogo interculturale con quello interpersonale tentando di indicare alcune situazioni comuni di dialogo culturale nella vita quotidiana delle persone…) con un’osservazione che ho letto in un libro di Roberto Calimani, Ebrei e pregiudizio – Stella gialla (Rusconi 1993, p.15): “Il pregiudizio nei confronti di uomini sconosciuti nasce spesso dall’ignoranza sulla propria identità. Temere l’altro e odiarlo significa, anzitutto, temere se stessi”.
Sostituisco a “uomini sconosciuti” rispettivamente “uomo-donna”, “bambini-adulti”, “giovani-anziani” e traduco in positivo: ogni cultura personale, riconosciuta e vissuta in profondità, attende e invoca, accoglie e ospita segretamente dentro di sé, nel rispetto e nel dialogo, ogni altra cultura. È questa l’immagine esistenziale che le riflessioni volevano comunicare.