Infanzia, diritto al lavoro ed educazione informale
Istanze e insegnamenti dal sud del mondo
Quando si pensa all’infanzia del sud del mondo, particolarmente a quella dei paesi e delle zone più povere, si ha generalmente l’immagine di bambini sofferenti, privi di tutto, in balia di un futuro già stabilità e conosciuto, e pressoché immutabile.
Quando poi si pensa di fare qualcosa per questi bambini, in linea di massima si pensa ancora (nella maggior parte dei casi, anche se non in assoluto) ad interventi di tipo assistenziale, che non partono dall’ascolto dell’altro, e soprattutto che puntano, in definitiva, a portare quell’infanzia ad un tipo di vita più vicino al modello dell’infanzia occidentale: ben pasciuta, che va a scuola, in strutture rigidamente organizzate; un’infanzia che ha un curriculum da seguire e che, soprattutto, ha davanti a sé un lungo periodo di dipendenza dal nucleo familiare.
Non è un’infanzia inerme
Ora, se è vero che molte delle immagini che si hanno qui dell’infanzia dei paesi poveri non sono completamente erronee, è pur vero innanzi tutto che non è un’infanzia “inerme” (come si potrebbe o in certi casi vorrebbe pensare), assillata dal problema della fame e delle malattie, in attesa di risposte e soluzioni dal mondo degli adulti.
È un’infanzia che ha coscienza della difficoltà di mutare il proprio destino, ma lotta fortemente per costruirlo. Essa non ha davanti a sé la prospettiva di una lunga adolescenza e dipendenza familiare, come in occidente.
Naturalmente non parleremo in generale ma farò riferimento ai due paesi che ho conosciuto maggiormente, il Brasile ed il Senegal.
Infanzia e diritto al lavoro
Da noi è un fatto assodato che l’infanzia non deve lavorare. Fino ad una certa età c’è la scuola, e fino a quell’età lavorare è vietato. Perché l’infanzia ha diritto alla spensieratezza, al gioco e alla libertà. Dunque ha diritto di non lavorare.
In questo postulato, che in occidente non viene giustamente più messo in discussione, si sommano conquiste culturali maturate nei secoli. Citerò due esempi.
Da un lato, le lotte e le rivendicazioni sindacali dei nostri padri, che con il sangue e spesso la morte (specie a partire dalla rivoluzione industriale) hanno conquistato il rispetto di un orario di lavoro umano, dei diritti sociali, e dell’infanzia, un tempo trattata come normale forza lavoro.
Dall’altro lato, la psicologia e poi la pedagogia hanno cominciato a definire scientificamente le necessità (cognitive, affettive, ecc.) dell’infanzia solo a partire dal secolo scorso e con le conquiste di queste scienze si è potuti approdare a definire l’infanzia come soggetto di diritti!
Teniamo presente, tuttavia, che se noi fossimo andati solo sessanta anni fa, prima della guerra, a parlare ad una famiglia di contadini, di qualunque zona d’Italia, di “diritto dei bambini a non lavorare”, forse saremmo stati presi a legnate!
I bambini del sud, oggi
Ora, se noi ci trasferiamo dalla nostra opulenta società ad un ambiente in cui necessariamente “tutti devono fare la loro parte”, è evidente che quel postulato per noi così ovvio, salta immediatamente.
Risulta invece ovvio che i bambini lavorano, che si guadagnano il pane e che è giusto che sia così. E in ciò non vi è nulla di crudele.
In una società di tipo rurale, tutti hanno un posto nel sistema produttivo. Per questo è normale per tanta parte dell’infanzia africana, anche quella metropolitana, provvedere a se stessa.
I bambini, che nelle grandi città del sud lavorano come instancabili formiche a qualunque ora del giorno e della notte, non vivono necessariamente questa situazione come una violenza, come un sopruso. Al contrario, essi vogliono lavorare, e lo ritengono un loro diritto, perché così sono autonomi, provvedono a se stessi, spesso sono loro a mantenere la loro famiglia.
Questo li fa sentire forti e liberi.
Essi non chiedono di non lavorare, bensì chiedono di essere riconosciuti e rispettati tanto quanto i lavoratori adulti.
Chiedono di non essere considerati teppisti e malmenati da tutti perché girano continuamente per le strade. E poi, chiedono formazione, quella sì. Per imparare le lingue degli stranieri, per leggere e scrivere, per farsi rispettare, e per imparare un mestiere migliore. In molte metropoli africane, in questi ultimi anni, bambini e bambine lavoratori si sono organizzati in delegazioni per partecipare ai festeggiamenti del primo maggio.
Intercultura e solidarietà
Considerare l’aspetto fondamentale del diritto al lavoro per l’infanzia, implica molte cose.
Per esempio, che i progetti di solidarietà che “piovono” dal Nord ricco dovrebbero tenere in considerazione ciò che i bambini chiedono, non ciò che noi qui vorremmo per loro, anche se ciò è contrario ai “principi fondamentali” da noi assodati e conquistati con secoli di lotte.
Questo significa, a sua volta, la capacità di ascoltare. Capacità di ascoltare i bambini. Capacità di ascoltare un’altra cultura.
Cadere dalla solidarietà all’ingerenza è più facile di quanto non si creda. Varie volte, in Africa, mi è capitato di sentire ridicolizzare le campagne che qui si fanno, per esempio, per il boicottaggio di quelle marche che utilizzano manodopera infantile. Talvolta mi sono sentita dire: “Ma perché non pensate ai vostri problemi? Se boicottate quelle marche, non capite che togliete a questi bambini la sola possibilità di sopravvivenza?”.
Certo è una scelta difficile. Per noi etico in certi casi è “intervenire in difesa di”.
Imparare nuove strategie
educative dal sud del mondo
Considerare il diritto dei bambini a lavorare, oltre a far meditare noi occidentali sulle innumerevoli immagini di infanzia esistenti nel mondo, ci porta anche ad apprendere molto dalla pedagogia del sud.
I bambini che lavorano sono molto spesso bambini che vivono senza la famiglia. Le ragazzine abbandonano i loro villaggi per andare nelle città a lavorare come colf (dove poi vengono sfruttate e maltrattate).
A Dakar si trovano adolescenti soli immigrati dalla Costa d’Avorio, dal Mali, dalla Mauritania e lo stesso vale per tutte le capitali africane. Vivono dunque con tutta la fatica di chi non ha più un punto di riferimento, una faccia nota, un indirizzo a cui ritornare.
Poi, un po’ alla volta, i riferimenti si creano, ci si organizza in gruppi di amici e di “colleghi”, tra chi intraprende lo stesso lavoro, e si tira avanti. Con le attività più impensate, a seconda delle stagioni, del flusso turistico e della situazione economica generale.
Educatore informale
L’educatore che vuole occuparsi di questi ragazzi, dunque, visto da un pedagogista o da un educatore accidentale, ha davanti a sé il “caos”. Noi purtroppo (e sottolineo il purtroppo) siamo totalmente abituati a considerare come ambito educativo quasi solo la scuola. L’istituzione pubblica, che ha degli edifici, degli utenti che frequentano, degli orari, delle età definite per ogni ciclo.
Tutto ciò che esiste al di fuori dell’educazione formale è ben poco conosciuto, concepito, fatto oggetto di studi pedagogici. Quando si parla di extrascolastico non si sa bene cosa si intenda, quale sia l’età di riferimento, quali le attività, quali le agenzie e, naturalmente, quali le finalità educative.
Orbene, in paesi in cui l’indebitamento cronico, il sottosviluppo, la disoccupazione, la miseria, non consentono certo ai governi di possedere grossi introiti da investire in istruzione, è evidente che la situazione va capovolta.
Azione e ricerca
In questa situazione, allora, gli educatori hanno imparato a lavorare con una prospettiva totalmente rovesciata rispetto alla nostra. Niente edifici, niente orari, niente curriculum, niente programmazione, nessuna età di riferimento. È una sperimentazione continua, una ricerca-azione costante e prolungata.
Il lavoro si fa, da principio, per strada, dove l’educatore va incontro al ragazzo, quando questi è disponibile. In questo tipo di rapporto l’arte seduttiva dell’educatore deve essere ben più raffinata che in condizioni normali, perché appunto l’educatore non ha iscritti che vengano a lezione: deve conquistarseli.
Per riuscirci deve essere innanzi tutto una presenza autentica, non ambigua, realmente amica.
Per questo, il tipo delineato di educatore è, forse, innanzi tutto, un militante. Un compagno di viaggio per quei ragazzi, che come tale ha deciso di impegnarsi a far crescere il proprio paese, aiutando questi bambini ad emanciparsi. La sintesi educazione/politica, da noi generalmente dimenticata, è qui inscindibile.
Operatore di democrazia
Non si tratta davvero più, qui, di istruire, bensì di aiutare a crescere, secondo le richieste dei bambini. Sono sì richieste di istruzione, ma anche di difesa dei diritti, di organizzazione del lavoro, di lotta contro i maltrattamenti. In questa dimensione informale, l’educatore è un po’ sindacalista, un po’ assistente sociale, è lui che tesse quelle reti per far sì che bambini e bambine possano organizzarsi in categorie, prendere coscienza dei torti subiti (per esempio di chi non dà loro la giusta paga). Ed è lui che organizza, poi, quegli spazi un po’ più formali (con gli edifici e con gli orari) dove fare formazione: professionale, sanitaria, linguistica, ecc., nonché gli spazi di svago, perché anche questi bambini sappiano che esiste un posto dove stare tranquilli, difesi, non più in balia di un mondo nemico.
Inoltre, l’educatore, in queste situazioni, è davvero un operatore di democrazia, abituato a programmazioni e valutazioni collettive (ovvero, abituato a mettersi in discussione, a farsi valutare dai bambini). Infatti, in un percorso che è primariamente di coscientizzazione, spetta agli stessi soggetti del percorso il diritto di decidere dove andare, che strada fare, con quale mezzo, con quale velocità e anche il diritto di fermarsi a discutere sull’andamento del viaggio.
Credo che per gli insegnanti ed educatori italiani sia importante conoscere modelli pedagogici differenti, eventualmente anche con un periodo di studio sul campo.