In cerca d’ali

di Stoppiglia Giuseppe

“Il mondo è traboccante di risonanze spirituali
e di segreti sublimi e meravigliosi;
ma basta porre una mano dinanzi
agli occhi perché tutto rimanga nascosto”.
[Baal Sehem Tov]

La paura dell’intensità
dei sentimenti

Mi aiutò a sollevare la valigia, aveva un’elegante giacca di pelle, una maglietta blu ed un franco sorriso; mi guizzò accanto nel vagone, mentre sfogliavo il giornale. Era una donna come le altre, ma diversa; il tratto distintivo, che saltava agli occhi a prima vista, era la finezza e la malinconia. Ci scambiammo sorrisi, poi parole e silenzi. Leggeva Erich Fromm e parlammo di Calvino, della Fallaci, di H. Hesse, di Jorge Amado.
“Lei legge molto – mi disse con uno sguardo dolce ed ammirato. – Io non ho più il tempo di andare in biblioteca e di leggere i libri che ho in casa, sono sempre in treno o in aereo: Australia, Francia, Messico, Svezia, Canada… Ormai, se si cercano i sentimenti, li si può trovare solo nei romanzi. Tutti i sentimenti, amore, amicizia, affetti familiari, si sono appiattiti, banalizzati, inariditi. Si ha paura dell’intensità dei sentimenti: per non soffrire li si anestetizza. Un’anestesia generale o locale contro tutte le emozioni profonde del cuore, dell’anima. C’è un’insensibilità diffusa, specialmente fra i giovani, una sorta di atonia morale. Si vive senza pensare.
“Non ci sono più legami che tengano. I vecchi, i genitori, i nonni, gli zii anche, prima restavano in casa, era bella la complicità che si stabiliva tra loro e i bambini, i ragazzi, un dare e ricevere attenzione, una cosa naturale. Ed ora? Ragazzini allo sbando, anziani abbandonati, solitudini. E le pillole, il Prozac, le vitamine, l’ormone dell’eterna giovinezza…”.
Ci lasciammo a Firenze: mi diede l’indirizzo. Mi sorpresi a pensare a lei intensamente, si era sulla stessa lunghezza d’onda. Solo più tardi mi scrisse di essere una giornalista, di quelle scomode come suol dirsi, e quindi presente nel mondo al di fuori dalle zone “protette”, di crocevia degli uomini.

Il silenzio dell’ascolto
è il silenzio dell’amore

Qualche volta mi prende il sentimento dell’urgenza.
Tante, troppe cose non dette: e il tempo s’accorcia, e il silenzio cresce. Quale scegliere, tra le mille storie, i mille frammenti di vissuto, le parole udite, che riemergono incessantemente nell’anima? Dal riciclaggio di quali scorie accendere fuoco e luce, calore ed energia pulita per il cuore degli altri? Come giungere al cuore, come trasmettere quell’intelligenza del cuore senza la quale è vano, freddo e ottuso ogni sofisticato esercizio di pura intelligenza?
La signora, che incontrai ad un dibattito “sulla affettività” con la giovane figlia, era forse sulla quarantina. Non so perché, le lasciai il mio numero di telefono. E mi telefonò, infatti, di notte; un’interurbana lunghissima.
Era alla ricerca, estrema, della magia o del taumaturgo. Aveva tentato tutto: il consultorio, il telefono amico, la psicoterapia a pagamento (e a tempo limitato), ma in effetti voleva solo qualcuno che potesse ascoltarla fino in fondo, che fosse disposto a mettersi sulla stessa lunghezza d’onda.
Anch’io commisi l’errore di darle consigli; ma un’anima che cerca se stessa ha bisogno soprattutto del silenzio dell’ascolto che è il silenzio dell’amore, per poter scoprire la voce che parla dentro di lei e trovare in sé la risposta, il cammino, la verità, la vita.

Voglia di comunicare,
sete di dialogo,
ricerca di comunione

A me piace tanto la gente sconosciuta che mi sorride per strada, che dice “buongiorno” come si usava un tempo fra viandanti che s’incrociavano in campagna. Ed è bello vedere l’altro viso che si apre, che si illumina, in un’irradiazione istantanea di fiducia e di simpatia. È una forma di comunicazione non verbale, che trasmette sentimenti positivi.
Sorrisi scambiati così in autobus o in treno, rapidi messaggi senza parole, bastano a ritrovare il senso dell’umano, il valore dell’incontro gratuito. Voglia di comunicare, sete di dialogo, ricerca ossessiva di comunione è l’imperativo eccitante, la consegna urgente lasciateci dalle feste di Macondo.
Chi sarà mai quel giovane che, a Spin, arrivato chissà da dove, in un impulso di riconoscenza, stringendomi le mani con affetto, ringraziava per la gioia che quel giorno aveva portato in lui? Vedendo il sorriso fiorire su quel volto, ho provato una commozione intensa. Ho desiderato essere un artista o un poeta per contare e celebrare la bellezza morale del processo educativo.

Compagni di viaggio
e nemici da abbattere

In questo momento giro fra le mani la lettera di un amico prete, impegnato quotidianamente nel recupero dei giovani caduti nel disagio o nella emarginazione, dove riporta il giudizio terribile di Paolo, un giovane di 22 anni, morto per overdose di eroina. “Voi adulti avete perso il vostro sapore e anche chiarore. Lasciate noi giovani insipidi e tenebrosi. Vi consiglio di nascondere la vostra inutile mole per evitarci gli scandali. Un giorno vi metteremo la macina da molino al collo per affogarvi”.
Paolo ci butta in faccia la sua rabbia, i suoi risentimenti. Quanti altri tentano di dirci quello che pensano e non ce la fanno…? ma perché non li ascoltiamo?
In quale atmosfera morale entra oggi un giovane che si apre al mondo? Non si tratta di fare confronti morali tra il nostro tempo ed altri, ma di soppesare il valore del tipo di vita che stiamo facendo. Vediamo in primo piano aspetti duramente negativi. Il giovane trova un modo di vivere improntato, prevalentemente, agli obiettivi del più possedere e più potere, del precedere gli altri in una competizione divenuta la sostanza dei rapporti interumani, del prendere per sé “il meglio dalla vita” e in definitiva prendere questo meglio dalla vita degli altri.
L’impegno politico è decaduto, in generale, ad una carriera fra le altre, che ha fama di essere tra le più spregiudicate e feroci nella competizione. La dimensione dell’esistenza è stretta, individuale, non sociale, non nazionale, tanto meno mondiale. Non importa il contributo del singolo alla grandezza della società. Un tempo il monaco, fallimento pecuniario, era considerato il sale della terra.
La grandezza di una società dipende dalla sua storia, dai suoi contributi culturali, dalle sue espressioni di generosità, dall’affermazione di una democrazia che fa di ciascuno un protagonista. Sembra invece che il proprio simile non sia un compagno di viaggio, ma un nemico di abbattere.
L’attività economica è un furto con destrezza, senza altra regola che il risultato, dove ogni idea morale di produrre beni e servizi per i bisogni umani pare un lusso per anime belle. Praticare la gratuità è eresia e sovversione rispetto al sistema del tutto-mercato.
Lo scetticismo viene ad occupare profondamente gli animi e perciò diventa facile giudicare i giovani materialisti ed interessati. “Ma che altro ci si potrebbe aspettare – e rispondo con le parole di F. Savater – quando vedono i loro genitori pieni di risentimento per il mondo. Esistono infatti genitori che trasmettono ai loro figli soltanto il disagio di vivere, un disagio che tutti proviamo di tanto in tanto, ma che diventa definitivamente negativo quando non si trasmette nulla di positivo e speranzoso. Il padre che si presenta come l’immagine del disagio, dell’irritazione e della frustrazione, senza mai infondere quella sensazione di gioia, di ingenuità, di sentirsi bene con se stesso, di amore per la vita e per le cose, vale a dire per tutto ciò che genera anche stima e amore per gli altri, non sarà mai un buon padre”.
La gioventù avrà sempre bisogno di guide, ma la direzione vera è quella di trasmettere la capacità di leggere gli avvenimenti e farli occasione di libertà, stimolando a cogliere negli avvenimenti stessi l’offerta che racchiudono.
Come si insegna questo?

Oltre la superficie,
nel cuore della vita

Non si insegna, si comunica. “Venite e vedete”. Se l’adulto con la sua vita fa vedere che sa andare incontro all’avvenimento con ottimismo, con la speranza di uno che attende qualcosa da tempo, e cioè la liberazione, costui è veramente una guida per la gioventù.
Vivere per gli altri vuol dire anche non attaccarci al mondo che ci siamo fatti e che ci sfugge, come se fosse l’unico degno, ma lasciare ai giovani spazio, tempo, fiducia per fare il loro, senza peraltro ritirarsi sdegnati. Non è facile. Soltanto una grande amicizia dà la forza di rivelarsi nella debolezza. Allora siamo già oltre la superficie, nel cuore della vita, forse nell’amore, che ha la vulnerabilità come una delle sue componenti. Nell’amore non ci si difende, perché si è nella verità.
Se non comprendiamo questo, che l’individuo cioè non si costruisce senza il rapporto con l’altro, senza riconoscere ed elaborare l’alterità, senza riconoscere che abita dentro di noi la dimensione gruppale, restiamo senza difesa di fronte all’alternativa drammatica che l’individualismo si trasformi nella guerra di tutti contro tutti.
Assistiamo impotenti al ritorno di forme aggressive di comunità, di gruppi chiusi che si costituiscono sulla logica dell’esclusione (la razza, la setta, ecc.). Nessun individuo dovrebbe essere considerato fuori del gruppo; se ciò accade, la dimensione gruppale si ripropone in forme regressive ed arcaiche.

Un veleno micidiale:
il successo ridotto a denaro

Esempi inquietanti si notano anche in Veneto, con rigurgiti di corporativismo cieco e manifestazioni di arroganza e moralismo irrazionali. La cultura solidale della nostra gente, mite e generosa, sembra attraversata da un veleno micidiale: fare denaro. Il successo è misurabile con il denaro e le sue maschere e naturalmente il possesso dei suoi simboli. Il successo ridotto a denaro pone tra gli insuccessi tutte le attività dell’uomo che non ne producono. Nessun gesto improduttivo merita considerazione: rientra nel pietismo consolatorio per gli esclusi.
Ma noi riprendiamo la strada, andiamo avanti. Qualche giorno l’anima è stanca; ma, a sera, forse sarà stanco anche il dolore e così arriva la pace. Con la pace riprendiamo in mano gli attrezzi della speranza per fecondare di semi di umanità, di amicizia, di comunione questa nostra terra.
La terra è bassa non solo per i contadini, ma anche per tutti coloro che hanno interessi spirituali e convinzioni di bene assoluto e si dimenticano così che il primo gesto di chi si accinge a seminare qualcosa è un compassionevole chinarsi verso il basso.
Compassionevole nel significato letterale di chi lascia che le passioni cantino i loro richiami e che altre voci si uniscano. Non possiamo coniugare compassione con indifferenza, freddezza, rassegnazione, e così via.

Sono gli occhi della terra
che vedono il cielo

Nella tradizione monastica si insegna a pregare insieme in modo che ognuno con le proprie orecchie ascolti il suono delle voci degli altri mentre unisce la sua al coro. Una fusione plastica che dà forma all’armonia. Vivere la propria vita, ascoltando nello stesso tempo quella degli altri è dunque preghiera, fusione di carne e di sangue che dà forma all’umanità, nell’umana compassione.
La terra è bassa, ma chi si china sopra con amore sa che è dal basso che il seme deve essere visto e accolto. Sono gli occhi della terra che vedono il cielo.
È così difficile convincerci di questo? È così difficile guarire dai terribili morsi dell’onnipotenza che ci hanno fatto delirare di poter ottenere tutto e subito? Chi guarda le cose dal basso (e sono i poveri della terra, i dannati della storia, i relitti delle guerre e delle competizioni liberiste all’ultimo dollaro) cerca di sopravvivere; ed è fatica terribile, ogni giorno.
Finché dividiamo l’umanità in due gruppi, quello che ha il dovere di dare e quello che ha il bisogno di ricevere e accettiamo acriticamente questo schema, pensando che ci aiuti a superare i complessi di colpa e a tamponare i buchi del sistema, ci allontaniamo da quella salvezza che ci appare sempre più urgente.
Quando Gesù esulta perché il Padre ha rivelato i suoi segreti ai piccoli, non aveva certamente l’intenzione di invitare i grande a farsi piccoli. Quello che ci fa entrare nella beatitudine dei poveri è riconoscerli come i confidenti di Dio e goderne lealmente. Non bisogna rubare ai poveri il privilegio che Dio dà a loro, come si tenta di fare negli ambienti cattolici “perbenisti”; hanno mai pensato questi buoni cattolici, delizia delle parrocchie, che questo è concretamente il peccato d’invidia?

Un Dio senza nome

Il Dio vero non ha nome, ma è il dio soccorritore, è colui che si è svegliato per aprire la porta all’amico inopportuno. La povertà si raggiunge – se non passiamo per il cammino dello spogliamento reale – per la strada della solidarietà. Non è facile come sembrerebbe, perché è una qualità che ci viene dall’amicizia con Cristo.
Sono sempre più convinto che la fede non è vera finché non si estende dalla testa ai piedi e non coinvolge la nostra storia personale. Sento molto la difficoltà di raccontare delle esperienze esistenziali, ma non posso lasciarle da parte perché entrano nel discorso della solidarietà.
Mi irrita la domanda che spesso mi rivolgono: “Dove lavori?” che giudicherei legittima se fossi un funzionario della FIAT, ma considero fuori luogo quando è rivolta a uno che risponde all’invito di Gesù: “Vieni e seguimi”. Preferirei mi chiedessero: “Dove vivi attualmente?”. Di fatto i primi discepoli rivolsero questa domanda al Cristo: “Signore, dove abiti?” – e non è certamente senza uno scopo preciso. L’esperienza più gratificante per me, un vero dono di Dio, è l’aver perso di vista perché sono qui.

Sono rimasto sempre solo,
malato, abbandonato, nudo…

Forse questa è la premessa che spiega la solidarietà come complementarità, come incontro di culture e di popoli. All’ingresso di una chiesa, in Emilia Romagna, tre bellissimi appelli fulminano il visitatore dai manifesti appesi alle pareti: “Avete parlato di me, avete pregato per me, ma io sono rimasto sempre solo, malato, abbandonato, nudo, incarcerato…”.
Nella parabola evangelica due uomini passarono oltre la carne ferita di un fratello in attesa di soccorso. C’è un passare oltre nella nostra vita che ha un carattere disumano, perché in gioco è la sorte di qualcuno che soffre, invoca, dispera quando sente dei passi che, invece di avvicinarsi, si allontanano in fretta, fuori del raggio di una possibile pietà. Da questa parabola si desume che tutto il senso di un’esistenza (la sua riuscita, il suo valore, la sua bellezza morale) dipende dalla capacità di non passare oltre, ma di restare accanto ad ogni creatura ferita.
Sono molte, purtroppo, le occasioni in cui si passa oltre. Non perché non si vede, ma perché non si vuol vedere.

Anche Dio ha il suo inferno

“Se vuoi renderti invisibile, fatti povero”, dice giustamente un proverbio.
C’è una persona che ha bisogno di te? È facile non vederla anche se ti sta accanto. Tua moglie, tuo padre, un amico, o tutte quelle mani che si tendono ogni giorno sulle nostre strade. Ma il problema non è solo quello di dare: è anche quello di vedere e di sostare. Perché si può passare oltre anche quando ci si ferma a dare. Si passa oltre quando l’animo non è partecipe, il giudizio severo, lo sguardo assente.
Dio viene non per passare oltre, ma per sostare. È accanto ai lebbrosi e ai pubblicani, a costo anche di compromettere la credibilità della sua missione profetica. Nietzsche diceva che “anche Dio ha il suo inferno, ed è il suo amore per gli uomini”.

Lì dove la notte finisce
e il giorno comincia

Un vecchio rabbino domandava ai suoi discepoli che cosa permette di dire che la notte finisce e il giorno comincia.
“Forse quando, senza fatica, si può distinguere da lontano un cane da un montone?”.
“No”, rispose il rabbino.
“Forse quando si può distinguere una palma da dattero da un fico?”.
“No”, disse ancora il rabbino.
“Ma allora, quando succede?”, domandarono i discepoli.
Il rabbino rispose: “Avviene quando, guardando il volto di un uomo qualsiasi, tu riconosci tuo fratello o tua sorella. Fino a quel momento è ancora notte nel tuo cuore” (tradizione ehassidica).
Restare o piombare nella notte è il nostro rischio.

Pove del Grappa, luglio 1996.