Il Vangelo non è Coca-cola

di Lima Paulo

Nulla a che vedere con l’Africa delle avventure di Tarzan dei film hollywoodiani o delle gare automobilistiche del rally Parigi-Dakar. Tutt’altro. Il continente nero di cui si è occupato il “Sinodo dei vescovi per l’Africa” era quello “delle guerre civili e dei massacri inter-etnici, aggravati da mercanti d’armi stranieri, verso i quali i governi del Nord sono stati notoriamente permissivi ed accomodanti”, nonché strangolato da una politica economica internazionale del FMI (Fondo Monetario Internazionale) e della Banca Mondiale.
Dalle savane tropicali a piazza San Pietro. L’assemblea, che per quasi un mese ha riunito in Vaticano trecento tra cardinali, vescovi, esperti e uditori (laici, preti, religiosi e religiose), si è conclusa ufficialmente domenica 8 maggio. La messa di chiusura è stata presieduta eccezionalmente dal cardinale nigeriano Francis Arinze, che sedeva sul trono di Pietro al posto di Giovanni Paolo II, immobilizzato in ospedale. Come era stato per la messa di apertura, canti e balli africani hanno arricchito la celebrazione, ma senza intaccare nella sostanza il rito eucaristico tradizionale romano. Una celebrazione “adattata”, dunque, più che realmente inculturata. In ogni caso, pur sempre una novità per le mura romane, tanto da essere ripresa in esclusiva dai fotografi dell’Osservatore Romano.
Ma non tutto è rose e fiori. Gli africani all’inizio chiedevano di fare un Concilio africano più rappresentativo e in modo tale da poter decidere sugli argomenti di fede e di disciplina. Ma come “Roma locuta, causa finita”, la Chiesa africana ha dovuto accontentarsi dell’idea di un Sinodo per l’Africa e per di più celebrato tra le quattro mura del Vaticano. Insomma “una pizza romana fatta in una pentola africana”, era la voce che circolava in alcune comunità cristiane del continente. Quello che tanti temevano, purtroppo è avvenuto: molto silenzio intorno all’evento. Sia dentro che fuori. La teologia del “nascondimento” e il voto di silenzio dei padri sinodali hanno impedito la fuga di notizie, facendo così pensare a un Sinodo piuttosto dentro una specie di “camicia di forza”.
Molto folklore ma poca sostanza. In poche parole, questo potrebbe essere il bilancio del Sinodo, un avvenimento che comunque le Chiese del continente nero attendevano come un avvenimento storico, ma che, sotto sotto, dietro le entusiastiche dichiarazioni ufficiali, lascia tanti vescovi e teologi insoddisfatti. Ciononostante gli africani venuti a Roma e muniti di un biglietto di andata e ritorno, prima di andarsene hanno proclamato che Dio non è solo bianco ed europeo, ma di tutti i popoli e civiltà. Ancora: il vangelo non è una specie di “Coca-cola”, da essere imposto aggressivamente per invadere una cultura, né la Chiesa un “punto vendita” di un mercato mondiale religioso.
Più di duecento interventi in aula. Fra i temi più “gettonati” quello dell’inculturazione e dell’impegno per la giustizia e la pace. Ma le suggestioni e le questioni sul tappeto non si sono limitate soltanto a questi due ambiti. Il dialogo inter-religioso, il rapporto con l’Islam e con le sétte, lo spazio per i laici e le comunità ecclesiali di base, l’autonomia economica delle Chiese africane, il ruolo dei missionari, la formazione dei preti, il commercio delle armi, il nuovo ordine economico mondiale: sono tutti temi ai quali i padri sinodali hanno dedicato attenzione e riflessione. Ma quali sono effettivamente le affermazioni più importanti del “Messaggio” finale del Sinodo africano? Cosa chiedono i vescovi alla Chiesa di Roma, al mondo economico e politico internazionale, e ai propri fedeli?

Una nuova evangelizzazione all’africana
È stato il tema dell’inculturazione il filo dei molti discorsi e dibattiti lungo i ventiquattro giorni di attività. Come essere realmente una Chiesa africana e non una fotocopia del modello universale (o romano)? Era questo l’interrogativo che martellava la mente dei partecipanti. Molti hanno riconosciuto i vari passi in avanti nell’africanizzazione della liturgia, ad esempio. Ma non basta. Ora occorre andare aldilà della musica, della danza, dei tamburi e del battere delle mani introdotti nelle celebrazioni. Altrimenti si rischia di cadere in un puro folklore, una specie di inculturazione “cosmetica”, avvertono i vescovi. “Cristo ci è stato presentato lontano dalla nostra cultura popolare. Ora vogliamo un Cristo che ci aiuti a riscoprire la nostra identità africana. Il popolo della Namibia lo ha accettato, ma Egli cammina tra noi ancora troppo vestito all’europea” – ha esclamato, quasi rivendicando, mons. Hashiku, vescovo di Troina (Namibia).
Senza lacrime e pianti, hanno fatto il funerale al metodo missionario del “semplice adattamento” della Chiesa latina all’Africa, visto come un’imposizione dall’esterno. L’inculturazione non è una nuova moda ecclesiale, ma la ragione di essere della Chiesa, un processo dinamico che deve permettere ai battezzati di essere autenticamente cristiani e autenticamente africani. In questo svolgono un ruolo indispensabile le comunità ecclesiali di base. “Loro sono l’unica via per un’autentica evangelizzazione e inculturazione della Chiesa africana”, ha detto senza mezzi termini il mozambicano mons. João Silota.
Dal punto di vista ecclesiale ancora, l’inculturazione viene benedetta ufficialmente come una necessità imprescindibile. Tutte le dimensioni della vita cristiana devono essere inculturate, sottolineano i padri sinodali: “Quella teologica, quella liturgica, catechetica, pastorale, giuridica, politica, antropologica, comunicazionale”. Con ciò si vuol dire, per esempio, che il Codice di diritto canonico dovrebbe essere in qualche modo modificato per ammettere una conciliazione degli usi e costumi africani con quelli della Chiesa latina.

Il matrimonio tradizionale africano
Insoddisfatti per la risposta contraria della Chiesa alla questione del matrimonio tradizionale, fatto per tappe e riconosciuto come tale solo quando nasce il primo figlio, alcuni vescovi hanno proposto tramite il keniota Raphael Nding che “il Papa nomini una commissione di esperti, teologi e pastori per elaborare e presentare una soluzione pastorale al problema”. Una soluzione – secondo Nding – sarebbe quella di “riconoscere, ad alcune condizioni, il matrimonio tradizionale come valido tra i cristiani, in modo tale che gli stessi possano avvicinarsi ai sacramenti”.

Contro l’apartheid sessuale
Non esiste un’inculturazione senza tener conto della posizione della donna nella società e nella Chiesa e dei comportamenti culturali che nuocciono gravemente alla sua dignità e ai suoi diritti. I vari pronunciamenti in aula sono proseguiti in questa direzione e, in alcuni casi, è stato messo un accento speciale sulla situazione di ingiustizia e di discriminazione della donna nella società tradizionale e contemporanea. Per De Jong, vescovo di Ndola (Zambia), ad esempio: “Oggi in Africa si assiste ad una vera apartheid sessuale che attribuisce alla donna un ruolo inferiore all’uomo”. E per ironia della sorte maschilista, al sinodo ha partecipato un numero assai ridotto di donne: ventiquattro e senza diritto al voto. Una delle poche a prendere la parola, Kathryn Hauwa, nigeriana, ha denunciato vivacemente le politiche governative di controllo della natalità nonché le campagne di sterilizzazione finanziate da agenzie straniere: “Siamo state tradizionalmente considerate come strumenti di procreazione e sempre predisposte ai lavori domestici, mai come leaders”.
Pochi vescovi, come il keniano John Njue, sono andati a fondo al punto di riconoscere come un peccato della Chiesa la disattenzione per la lotta della donna. “La Chiesa deve considerare la rivendicazione dei diritti della donna – continua il prelato – come un fatto intrinsecamente legato alla proclamazione del vangelo, anche se un esame di coscienza dimostrerebbe che la Chiesa stessa è connivente e responsabile di questa situazione”.

Il grido di giustizia e pace
Le affermazioni più forti e chiare i vescovi africani le hanno comunque dedicate ai temi etici e politici. Una costante è stata la grave situazione di crisi sociale, politica ed economica che permea tutta l’Africa. Una democrazia in calvario. Un coro di voci ha duramente denunciato il commercio delle armi come una delle cause principali delle guerre sparse un po’ dappertutto nel continente. C’era chi voleva, ad esempio, che si lanciasse un appello diretto ai fornitori di armi dell’Europa e delle Americhe, come il vescovo angolano Franklin da Costa: “Denunciamo il vostro cinismo e la vostra crudeltà. Cessate di fornire delle armi agli africani, perché si uccidono a vicenda. Siete colpevoli delle atrocità delle guerre fratricide: gli africani non fabbricano delle armi moderne e sofisticate. Il futuro inequivocabilmente vi condannerà senza pietà”.
È il tema della “giustizia e pace” venuto a gala quasi per dimostrare che non esiste un’inculturazione della Chiesa africana senza un impegno politico concreto e collettivo con l’intera liberazione del popolo sofferente. Le dittature e il militarismo hanno provocato la morte degli innocenti, la distruzione delle proprietà, milioni e milioni di rifugiati, profughi, vedove ed orfani. Le cause si incontrano dentro e fuori il continente. Le divisioni tribali e il sospetto reciproco generano oppressione e provocano conflitti intertribali e violenza. Da ciò un’inquietante domanda: “Come proclamare il vangelo in tale situazione di crisi e di tensione? Cristo, il Liberatore, non venne soltanto per liberare l’umanità dal peccato, ma anche dalle sue conseguenze, in particolare l’ignoranza, la miseria, la malattia e tutte le forme di ingiustizia e di oppressione”, ha rilevato il nigeriano Adelankun.
Sul capitolo dello sviluppo economico, il Sinodo poi “reclama maggiore giustizia fra il Nord e il Sud”, accusa l’Occidente di aver “mantenuto uno squilibrio strutturale” e di aver imposto “ingiusti termini di scambio”. L’ingiustizia dei prezzi internazionali, aggiungono i vescovi, “ha come conseguenza l’accumulo del debito estero”. L’assemblea ha condannato totalmente gli aggiustamenti strutturali imposti dal FMI e Banca Mondiale, perché “soffocano le fragili economie dei nostri paesi, mettono a rischio le giovani democrazie e impongono la sofferenza e la miseria ai poveri, che sono la maggioranza della nostra gente”, ha denunciato mons. Mazombwe, vescovo di Chipata (Zambia). Egli stesso dichiara che il “problema del debito non è solo economico. Ma è fondamentalmente etico in quanto si tratta di un problema profondamente umano e che colpisce soprattutto il benessere delle famiglie e la sopravvivenza dei poveri”. Assieme al Papa e al Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, i vescovi chiedono il condono del debito estero, “se non totale, almeno sostanziale” ed esigono simultaneamente “l’avvento di un nuovo ordine economico internazionale più giusto”.
Nel loro Messaggio finale, i vescovi africani sentono soprattutto la necessità di un maggior impegno dei cristiani nel campo della politica e dell’economia e affermano che “l’educazione alla democrazia dev’essere una delle grandi priorità della Chiesa africana”, perché “se vogliamo la pace dobbiamo lottare per la giustizia e promuovere uno Stato di diritto”.