Il sorriso di un popolo

di Grande Ivo

La stanza sparita

Queste sono le mattine del non-risveglio. Essere svegliati da un rumore o da voci o da uno sbattere di porte o da un aprire gli occhi di un mondo che si è già svegliato e non ti aspetta: resta pure nel letto fratello mio che io son già partito. E tutto il resto della giornata dai primi momenti trascorsi in bagno a quelli successivi tra le lezioni in facoltà e i canti del Nostro Alighieri in biblioteca si accatasta in macrosecondi dilatati in una-due ore che si schiacciano uno sopra l’altro fino a costituire un ammasso denso e gelatinoso di tempo che è poi la mia inconcludente e vuota giornata in cui la mia faccia dice ciao ciao che arrivo subito alle facce degli amici che si sono svegliati prima e che già dalle otto erano in biblioteca e che ora rincasano fumandosi una Marlboro.

Inutile impegnarsi per raggiungerli: è sempre un vano inseguimento; sono le otto di sera per loro sono le otto di sera per me sono ancora le sei: la giornata è ancora lunga e non può finire certo quando gli altri vanno a dormire. Io resto in piedi ma anche il mondo chiude gli occhi: continua tu fratello mio che io vado a dormire. E continuare adesso non è cosa facile: è come costruire un salotto da tenere vuoto in una stanza bene arredata, e dopo averlo fatto sentirsi come aver fatto un’azione priva di sostanza: a cosa può servire una stanza vuota? Quindi spegnere il televisore e andare a letto: al nonrisveglio di domani la stanza sarà sparita.

Risveglio reale

Risveglio lento ma reale: come me questa mattina si sveglia il mondo. Ecco perché mi sveglio: Adrja, che viene dal Kossovo, ha bisogno di una visita al pronto soccorso e io sono l’unico della famiglia che può portarcelo.

Risveglio reale, dunque, alle otto che sono le otto di tutti, le otto del mondo. Porto fuori il mio cane che respira l’aria fresca del mattino e si scarica l’intestino per l’ennesima volta sull’asfalto e non aspetta di arrivare sulla collinetta di terriccio come da piccolo gli avevamo insegnato. Gli rivolgo le consuete parole di rimprovero di cui il canide se ne frega, raccolgo con apposita paletta ciò che ha prodotto e la getto nel cassonetto. Che schifo!, direte voi, ma se non avete un cane che appena girate la testa vi fa fessi e poi credendo di non essere notato ride pure alle vostre spalle, bé, proprio non potete capire. L’unica cosa che, per civiltà siete tenuti a fare è raccattare ciò che ha prodotto e gettarlo nel cassonetto. Poi, non state a rimproverarlo, tanto fa di testa sua.

Riportata a casa la belva saltellante (e latrante a tutti i cani del vicinato per dare inizio al primo grande concerto del giorno), aspetto Adrja che dopo un po’ di ritardo sopraggiunge. Sorridiamo io con un sorriso da occidentale efficiente, lui con un sorriso da ultima retrovia d’oriente, un sorriso con una Storia da raccontare, il sorriso di un popolo e non di una persona, il sorriso di una vita spiegazzata e ricucita, come il foglio appallottolato che riapri e stendi con la mano sul perché ci vuoi ancora scrivere.

Entriamo in macchina e ci avviamo:

– Egidio lavoro?

– Sì, Egidio è al lavoro.

– E Serena dov’è Serena?

– Serena è al lavoro anche lei.

– Ah.

– E tu? No lavori?

– No. No. Io studio.

– Scuola?

– No. Università.

– Ah. Università. Anch’io dicevo prima Università va bene ma poi non c’erano soldi.

Inseguire la

vita degli altri

Già. Non c’erano soldi. Accompagno Adrja per i larghi corridoi dell’ospedale. Lui sa già dove andare. Ci sediamo in un corridoio buio illuminato solo dal neon di un’orrida lampada sul soffitto: niente luce del sole. Pallore ovunque. E così la mia giornata entra in pausa, seduto davanti a questa porta di ambulatorio insieme ad Adrja e a tutto questo pallore.

La giornata si ferma in questo spazio di non vita terrificante. Fuori dovrò riprendere ad inseguire la vita degli altri. E di che parlo ora? Dico, di che cosa vuoi parlare con un immigrato che vive con un’altra testa, che tu rispetti e aiuti ma col quale irrimediabilmente finirai per annoiarti? Di che parli?

Parla lui infatti.

– Io tu va bene. Tu quest’estate Croazia da mio fratello tu diverte estate solo ragazze, tu diverte. Io telefono mio fratello imbiancatore e dico Ivo va bene tu ospita mangia beve dorme. Tu sta bene in Croazia d’estate.

– Grazie, Adrja. Quasi, quasi andrò a trovare tuo fratello.

– , ,

– , ,

– Tu bella macchina Ivo, tu Wolkswagen, Wolkswagen no problema Wolkswagen motore buono, va bene,

– Sì, le Wolkswagen sono buone macchine.

– Si buone. Io Kossovo facevo meccanico. Va bene meccanico, va bene. Poi guerra. E guerra no va bene. Io fare guerra. Io sparare e altri sparare me. Rumore spari amici che muore, come ieri diciannove che muore e Don Doriano che dice sono dispiaciuto. Ma noi lì fare guerra e gente che moriva in due chilometri venti morti per la strada e tutto sangue e io sparava e pensava perché? Perché? E bambina piccola al centro della strada in mezzo a spari che piangeva e perché bambina piccola piangere. Perché guerra.

– ,

– Mia madre. Io non so niente.

– ,

– Ecco. Dottore arriva. Va bene dottore va bene.

Qualcosa in comune

Adrja non ha niente. Il dito sta guarendo. Solo l’unghia è un po’ sollevata, ma col tempo tornerà come prima.

Ci rimettiamo in macchina e non riusciamo a partire perché non riesco a ricordarmi dove ho messo le chiavi. Adrja mi dice di aver capito dove si trovano, ahi ahi Ivo, in effetti sono rimaste attaccate allo sportello. Ripartiamo. Riporto Adrja a San Rocco. Per la strada me ne sto zitto e mi godo la giornata di sole. Tornato a casa mi addormento. E oggi, chissà perché, mentre maledico il mondo per la mia lentezza congenita, buco il soffitto con lo sguardo e cerco l’occhio di Dio tra le stelle per chiedergli per Natale di avere in regalo qualcosa in comune con Adrja, foss’anche quell’infezione al dito.