Il premio

di Pinhas Yarona, Piccardo Hamza R., Broccardo Carlo

NELLA TORÁ€
Dice il saggio: «Non siate come servi che prestano servizio al padrone allo scopo di ricevere un premio, ma siate come servi che servono il padrone senza lo scopo di ricevere una ricompensa; e il timore del cielo sia su di voi» (Pirqè Abot 1:3).
Rabbi Abba diceva: «Colui che desidera diventare ricco e vivere a lungo, venga a studiare Torà» (Zohar, Lekh Lekhà 88).
Un giovane di nome Yossi udì queste parole e disse al rabbino: «Sono disposto a studiare Torà per diventare ricco». Il rabbino chiamò i suoi discepoli e ordinò loro di insegnargli la Torà. Fu chiamato Yossi, «colui che ama la ricchezza». Un giorno Yossi si presentò al rabbino e gli chiese dove era tutto ciò che gli era stato promesso. Il rabbino capì che i suoi studi non erano nel «nome del cielo» ma per ottenere la ricchezza materiale e volle punirlo. Allora sentì una voce che gli suggerì di non punire ma di continuare a insegnare perché un giorno egli sarebbe diventato uno dei più grandi saggi d’Israele.
Ed ecco, un giorno si presentò al rabbino un uomo che tirò fuori un calice d’oro il cui splendore illuminò l’intera stanza e disse: «Vorrei con tutto me stesso dedicarmi allo studio della Torà, ma non mi è possibile. Vorrei che un discepolo saggio lo facesse per me e io gli donerò questo calice». Il rabbino pensò subito a Yossi e gli diede il calice. Yossi si applicò allo studio con tutte le sue forze, finché divenne un grande uomo. Con il passare del tempo lo studio penetrò nel suo cuore e lo riempì d’amore. Un giorno il rabbino lo visitò e lo vide piangere e gli chiese il motivo. Disse Yossi: «Mi rendo conto che per l’oro perdo il mondo a venire.
Riprendi il calice, mi basta il merito della Torà che studio». Il rabbino capì che Yossi stava studiando non per ricevere il premio, ma per lo studio in sé. Restituì il calice al proprietario e gli disse di venderlo e distribuire il denaro per fare tzedakà, perché «operando la giustizia sociale donando ai poveri, orfani e vedove riceverai il tuo compenso direttamente dal cielo». Da allora Yossi fu denominato Yossi figlio di Pazì (oro).

La giusta ricompensa
L’insegnamento ricavato è questo: «Felicità all’uomo che teme il Signore, che ama molto i Suoi precetti… (che pone la sua fiducia) nei Suoi precetti non nella ricompensa dei Suoi comandamenti» (‘Avodà Zarà 19a), poiché «il giusto non vacillerà mai, sarà ricordato in eterno; non teme neppure le cattive notizie, il suo cuore è ben saldo in quanto fida nel Signore. Dà in abbondanza ai poveri, le conseguenze della sua giustizia durano in eterno… ciò che i malvagi desiderano non avviene mai» (Salmi 112).
È connaturato nell’uomo fare un’azione solo se ne ricava un vantaggio e perciò agire senza avere interesse personale necessita un livello spirituale che pochi possiedono. Maimonide afferma che parlando al popolo è necessario spiegare che un’azione buona e giusta viene premiata, mentre un’infrazione causa una punizione. Ma questo è puro automatismo; in realtà sarebbe auspicabile una presa di coscienza che portasse a un processo di studio e approfondimento in ottemperanza ai precetti che opera il risveglio del cuore e che giunge a servire Di-o per amore e non per timore (Shemonà Perakìm).
«Godrai quindi di tutto il bene che il Signore tuo Dio avrà dato a te e alla tua casa, tu stesso, il Levita e il forestiero che sarà in mezzo a te» (Deut.26:11).
Questo dovrebbe avvenire non in virtù di una ricompensa, ma per convinzione e amore: questo è l’assioma sul quale si basa il dovere etico dell’adempimento del precetto, In questo è necessario seguire l’esempio di nostro padre Abramo, che si realizza: «Osserverai ed eseguirai tutti questi precetti che io ti comando oggi, di amare, cioè, il Signore tuo Dio e di andare nelle Sue vie per sempre» (Deut. 19:9).

Meritare il proprio io
Il rispetto dell’etica è premiato: deve essere un comportamento del popolo.
Ad un livello superiore cessa la necessità del riconoscimento altrui: «Se seguirete le Mie leggi e osserverete i Miei precetti e li eseguirete, Io manderò le piogge a voi necessarie a loro tempo, e la terra darà il suo prodotto e gli alberi dei campi daranno i loro frutti… e mangerete il vostro pane a sazietà e risiederete tranquilli nel vostro paese» (Levitico 26:3-5).
Niente è casuale, esiste una ragione per ogni cosa. «Essi compiranno l’espiazione dei loro peccati, e Io ricorderò il Mio patto con Giacobbe, e anche il Mio patto con Isacco e anche il Mio patto con Abramo ricorderò e perfino la terra ricorderò» (Ibid.26:42). Il Signore ricorderà i meriti dei padri e la Terra Promessa. Il merito è sapere riconoscere se stessi, meritare il proprio «io» e l’essere stati creati a «Sua immagine e somiglianza», grazie all’ascolto della Parola.

Yarona Pinhas
laureata in storia dell’arte e linguistica,
università ebraica, Gerusalemme
lettrice all’orientale di Napoli

NEL CORANO
Nell’islam il concetto di premio è intimamente legato a quello più generale della «retribuzione/compenso», concetto tanto importante che alcuni traduttori hanno scelto questo termine (il giorno della retribuzione) per dare il senso di yaumiddin presente già nei primissimi versetti della sura Aprente (al-fatiha), di cui Allah è l’incontrastato malik (re).
Ogni creatura umana verrà giudicata in quel Giorno e «Chi avrà fatto [anche solo] il peso di un atomo di bene lo vedrà, e chi avrà fatto [anche solo] il peso di un atomo di male lo vedrà» (Corano XCIX, 7/8).
E con l’evidenza delle proprie azioni si avrà anche «scienza certa» del loro valore e con la speranza della misericordia divina per le inevitate colpe ognuno vorrà essere stato tra coloro che hanno creduto e ben agito perché «…saranno ospitati nei giardini del Rifugio, premio per quello che avranno fatto» (Corano XXXII,19), «…li porremo in alti luoghi del Paradiso sotto i quali scorrono i ruscelli e vi rimarranno in perpetuo. Quanto è meraviglioso il premio di chi opera [il bene], di coloro che perseverano e hanno fiducia nel loro Signore!» (Corano XXIX, 58/59).
Ma cosa sarà il premio? Ci sia concessa un’autocitazione: «La malevolenza della critica occidentale più rozza e prevenuta ha spesso ironizzato pesantemente sulla «forma» del Paradiso islamico, gratificandolo di «materiale sensuale, rigurgitante di donne disponibili ed efebi coppieri». Nulla di più sviante e mistificante. Senza entrare nel merito delle diverse interpretazioni che tradizionalisti e mistici hanno avanzato a proposito della realtà o della allegoria delle descrizioni coraniche, ci si consenta citare l’hadč«th con il quale l’imâm An-Nawawč« conclude il Riyâd as-Sâlihč«n [Raccolta di ahâdč«th del sec. VII dell’Ègira/sec. XIII]: L’Inviato di Allâh disse: Quando gli abitanti del Paradiso vi entreranno, Allâh Benedetto ed Altissimo dirà: Volete che vi sia qualcosa in sovrappiù? Non hai forse rischiarato i nostri volti? – diranno, non hai estirpato il rancore dai nostri cuori? Non ci hai forse fatti entrare in Paradiso e liberati dal Fuoco?, ed Egli strapperà il velo: e non sarà stata data loro cosa più cara della vista del loro Signore».

Il Paradiso (è)
Crederci e viverne una parte in questa vita,
in ogni colore, ogni profumo, ogni viso sincero.
Il Paradiso è in quello che era
smarrito e Lui ha fatto ritrovare.

(è) Al Naim (La Delizia)

Il Giardino senza muffa, il calore
senza la calura, un’acqua che scorre
senza intorbidire mai: la delizia del
cuore e dei sensi.

(il paradiso è) Dar al Mahabba (la
casa dell’Amore)

Sarà la casa senza porte e senza
rischio, non v’entreranno correnti
perniciose né la polvere.
È la casa dell’Amato e di ogni amore
santo e benedetto.

(è) Al Firdaus (il luogo più elevato)

Cosa mai saranno gli occhi, che non
possono guardare il sole se non ai
suoi estremi, e per poco.
Colà contempleranno il Volto in
ogni istante e senza abbaglio.

(da Pensieri sul Giardino dell’Eternità, inediti di Hamza R. Piccardo)

Hamza R. Piccardo
Segretario nazionale
dell’Unione delle Comunità e
Organizzazioni Islamiche in Italia (Ucoii)

NEL NUOVO TESTAMENTO
Il Vangelo secondo Marco racconta che un giorno «Pietro disse a Gesù: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito! Gesù gli rispose: In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi» (Mc 10,28-30).
È un brano curioso, che mette bene in luce la complessità del tema: come si è posto Gesù di fronte alla questione del premio? Da un certo punto di vista promette un risarcimento non da poco già qui sulla terra: cento volte tanto; però dice anche che il premio vero e proprio sarà la vita eterna. Di più: da una parte afferma che è prevista una ricompensa per chi fa il bene; dall’altra le parole famose sugli ultimi e sui primi insinuano il sospetto che non sarà una questione matematica: meglio che non ci mettiamo a fare i conti noi, potrebbero non tornare.

La ricompensa non è proporzionale
A volte, infatti, le parole di Gesù sul premio promesso ai suoi discepoli possono aver indotto qualcuno a fare calcoli, cercando di quantificare: quanto vale ogni azione buona? Magari si può anche accumulare merito per gli altri, o sostituire un’azione con un corrispettivo in denaro… Di per sé nei Vangeli non c’è traccia di questo modo di ragionare. Leggiamo per esempio la parabola dei lavoratori presi a giornata (Mt 20,1-16): il padrone passa all’alba e chiama a lavorare per lui un primo gruppo di persone; poi ripassa alle nove, a mezzogiorno, alle tre e alle cinque: è chiaro che gli ultimi lavorano poco rispetto ai primi, eppure la ricompensa alla fine è uguale per tutti. A chi si lamenta, il padrone dice: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,15).
È incredibile: proprio Matteo, l’evangelista che più di tutti sottolinea l’importanza di mettere in pratica gli insegnamenti di Gesù, proprio lui che dice più volte che bisogna «fare» per «entrare nel regno dei cieli», proprio lui riporta questa parabola di Gesù, il cui insegnamento è chiaro: la ricompensa non è proporzionata alla quantità di lavoro, ma alla bontà di Dio.
Così è tolto ogni dubbio: i discepoli di Gesù non lavorano per la ricompensa. «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10); quando abbiamo fatto la volontà di Dio non abbiamo pretese da vantare: abbiamo fatto quel che c’era da fare, basta. San Paolo approfondisce tantissimo questo discorso, specialmente nelle lettere ai Galati e ai Romani: la salvezza viene da Dio, non dalla quantità di opere buone che riusciamo a mettere da parte.

È Dio stesso
Il premio dunque non è quantificabile. Anche perché Gesù promette qualcosa che è così grande da andare oltre ogni possibilità di misura: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli» (Mt 5,3). Se continuiamo la lettura di Mt 5, completando l’elenco delle beatitudini, ci accorgeremo che il premio promesso è sproporzionatamente grande: non c’è paragone tra quanto si fa e quanto si riceve da Dio. A chi si fida di Lui, Dio promette Se stesso; Dio è la nostra ricompensa
Nel capitolo 15 del suo Vangelo, Luca racconta una parabola: un padre aveva due figli. Un giorno il figlio minore prende la parte di eredità che gli spetta, se ne va da casa e spende tutto; coincidenza, una carestia lo costringe alla fame e così – più affamato che convertito – ritorna a casa. Il padre lo accoglie e inventa per lui una festa; ma suo fratello si rifiuta di entrare: non è giusto, dice al padre, perché «io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo!» (Lc 15,29-31). Il premio non è ricevere qualcosa in cambio dei numerosi servizi, ma sentirsi dire le parole del padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo».

Carlo Broccardo
docente di Sacra Scrittura
facoltà teologica del Triveneto