Il difficile incontro delle differenze

di Garbagnoli Viviana

Fa caldo. Molto caldo. Rio de Janeiro: è agosto, dunque inverno, eppure il caldo si fa sentire e anche la stanchezza, l’emozione.
La casa Macondo, come io continuerò a chiamarla per tutto il viaggio, è proprio bella, è così bella da essere la casa.
Il viaggio incomincia lì: tre persone sconosciute, conosciute o solo incontrate per caso. Il viaggio lungo tocca tante realtà e persone, a Rio l’incontro con la realtà della favelas, a Manaus il carcere e il Centro di Difesa dei Diritti dell’Uomo, a Santarem la lotta per la libertà degli Indios e l’Amazzonia, a Belem la Repubblica dei Minori, a Salvador la lotta operaia per salvare un bairo dalla capitalizzazione missionaria e la fatica di mettere in piedi un movimento in difesa delle donne maltrattate.
Cammino, guardo, osservo e tutto mi sembra da un lato paradossale e dall’altra simile a realtà italiane già viste e conosciute.

La parola che ci unisce è: genere
Racconto dell’esperienza italiana, del Centro Antiviolenza e immediatamente scopro che loro, le donne brasiliane, parlano il mio stesso linguaggio, ci capiamo, scorre immediata una naturale solidarietà politica e sociale e la parola che ci unisce è: genere. Il problema della violenza sulle donne è un problema mondiale, poco conta se le donne sono italiane o slave o brasiliane, il vero problema è che la questione va trattata partendo dal presupposto che è il “genere” che innesca la violenza e questa va combattuta.
Ma non è sempre così, non sempre il linguaggio è comune, anzi a volte è molto lontano.

Stupore
Mi accorgo con stupore che è lontano là dove presumibilmente non dovrebbe esserlo: tra alcuni frequentatori di Macondo, tra chi lavora per “missione”; eppure parliamo tutti la stessa lingua, ma è qui che mi rendo conto che la lingua, le parole hanno un significato troppo preciso e diverso, politico e sociale al tempo stesso. Qui mi rendo conto che ascolto discorsi rigidi, prepotenti da coloro che pensano che basta mettere il piede in un paese povero per poter avere la libertà di dire di tutto senza capire niente.
Ho la sensazione che troppa gente scappa, fugge dall’Italia, questa Italia così tanto piccolo-borghese da riuscire a far credere di essere in fase di cambiamento, questa piccola Italia che non si accorge che ha un popolo privo di valori veri, di cultura, di autocritica, questa Italia che lascia che chi non trova qui un suo spazio, una sua collocazione, vada verso paesi bisognosi magari accreditando loro un piccolo, misero potere fatto di quattro idee e un po’ di denaro.

Un grido d’allarme
Il Brasile questo non lo vuole.
Per troppi anni è stato costretto ad accettare, ora vuole, deve ribellarsi a chi continua ad esportare una cultura che non è la loro, a chi non può capire la sofferenza perché non sa di soffrire.
I discorsi politici con i brasiliani sono così forti e interessanti da rimettere in discussione questo mio essermi lentamente ritirata nel mio privato, dopo tanti anni di speranza, di illusione; è così antimilitarista e antiamericano da essere un discorso che non può restare chiuso fra di noi, ma deve diventare un grido d’allarme per il mondo intero, e forse anche Macondo potrebbe provare ad ascoltare di più.

Capire, sentire
Parliamo di mondialità, concetto che dovrebbe poter dire che esiste nel mondo un bisogno univoco di speranza, di voglia di combattere la criminalità, la speculazione economica.
Sappiamo tutti che così non è, ma è necessario scoprire che dentro ognuno di noi c’è, è viva la lotta per la democrazia.
È importante partire dall’ascolto di chi ci sta parlando per capire che è solo unendo le forze che forse potremo fare qualcosa. Capire. Parola difficile e faticosa.
Uscire da sé, dal proprio mondo stereotipato, riempito di concetti rubati, pseudo democratici, per giungere all’altro, con la consapevolezza di stare compiendo uno sforzo davvero grande, avvicinarsi alla differenza nel rispetto.