Haiti, si accende una speranza
Come in un fumetto
Passeggiando per Port-de-Paix si entra in un fumetto disegnato dalla matita buffa di un vignettista sarcastico. Coloratissime casette strampalate – un po’ alte, un po’ basse, mai finite o fatiscenti – si appoggiano a tremolanti colonnati stile “saloon”, e aprono i loro piani inferiori a negozi ora colmi di grosse latte americane e merci di ogni genere, ora dagli scaffali completamente vuoti. Non un muro che sia dritto. Qualche gradino sgretolato basta appena per saltare il canaletto verdastro che costeggia la strada, una fogna a cielo aperto dove sguazzano brutti anatroccoli che cigni non saranno mai, e dove qualche bambino si china con un bicchiere.
Spalliere di letti, portiere di auto, ferraglie varie si arroventano al sole accanto alla baracca del fabbro, costretto a mesi di inattività o a turni di lavoro assurdi per assecondare i capricci della corrente elettrica.
Un asino testardo, penzolante di banane, s’impunta ad un incrocio, tra le bancarelle di un mercato invadente dove tutti sembrano vendere e nessuno comprare. La padrona ne approfitta per assettarsi sulla testa l’ampio e sgargiante foulard. Una jeep, grossa come l’omone che la guida, strombazza vanamente con un clacson sfinito da battaglie sempre perse contro carrette e animali incaponiti.
Luccicanti ottoni di una banda malinconica suonano una marcetta roca per un funerale talmente pittoresco da non sembrarmi triste. Il carro funebre è una vecchia e scura macchinaccia americana dalle linee lunghe e comiche, che pare uscita da una scena di “Ghostbusters”. Dietro sfilano lacrime di parenti, bianchissime camicie madide, trionfi d’organza e di ampie gonne a balze, ombrellini parasole con qualche stecca un po’ ribelle, seggiolini pieghevoli sottobraccio, da usare anche sul cassone dei tap-tap, le camionette-taxi istoriate con versetti biblici.
Il bucato sul filo spinato
Seduta su una cassa di rhum, una ragazza, circondata da secchi, sciacqua una fila di bimbi nudi e insaponati. Il filo spinato trattiene il bucato svolazzante. Miracolo di lavandaie, dignità di poveri: vestiti pulitissimi in un mondo di sporcizia.
Andando verso il mare, è un labirinto di vicoletti stretti quanto una persona, un alternarsi sconnesso di baracche di lamiera soffocante, costruite sui gobbosi sedimenti di barriera corallina. Lambita dall’acqua, una grossa capanna circolare gremita di persone. é la “gagé”: si scommette, si affida qualche “gourde” alle beccate mortali di un gallo da combattimento ben allenato. Appena fuori si preparano larghe frittelle di manioca e qualche banana cuoce sul carbone. Su un tavolo traballante sbattono, rigorosamente consunte, pedine di domino. Non fosse per il vociare in creolo, per quella cadenza francese imbastardita, sembrerebbe di trovarsi in un racconto di Garcia Marquez.
Fumi, odori di bruciato, di marcio, e colori.
La spiaggia, come la strada, è disseminata di bucce varie e di ossi di mango spolpati. Capre e maiali cercano l’improbabile ombra di palme troppo povere e spaventate per comparire su qualche dépliant turistico.
Ossessivo tamburo Vodù
Vicino al porto, un poliziotto sonnecchia nella sua garitta, seduto su una sedia a rotelle. Sotto un cappello di paglia con le tese spettinate, un viso di donna scavato dalle rughe. Tira una boccata da una pipetta esile e stringe una gallina per le zampe. Chissà se il suo sacrificio terrà lontano il “lou-gawou”, il lupo mannaro a cui tutti dicono di credere. L’ossessivo tamburo Vodù ritma notti insonni di danze e preghiere, bokor e hougan (stregoni e preti), alleanze con le divinità, fatture e guarigioni, strani fenomeni sepolti, mai morti, che tornano a vivere… questo è il Vodù gelosamente custodito e radicato, con i suoi riti sincretizzati, le sue magie e i suoi veleni, retaggio religioso-culturale, simbolo di lotta e appartenenza, ma anche arma di repressione. Il resto è fantasia di celluloide, finzione per flash e pellicole, suggestione di scrittori.
Un’apparenza suggestiva
Port-de-Paix, Haiti: un’apparenza suggestiva non cancella la tragedia di questo fazzoletto d’Africa di sangue caraibico incatenato all’America, sputacchiera di militari, aristocratici corrotti, invasori a stelle e strisce.
Sembra impossibile nascondere la miseria e la fame. L’embargo di quest’anno ha piegato un popolo già stremato e in più oppresso, lasciando impuniti, anzi arricchendo, i destinatari di questa dubbia arma diplomatica: un contrabbandiere di gasolio, generalmente un militare alto graduato, guadagnava in una notte quello che un contadino si suda in tre anni di lavoro nei campi.
Il ritorno della democrazia
Jean-Bertrand Aristide è tornato al potere. Passato gran parte del suo sacrosanto mandato presidenziale in esilio, gli resta solo un anno di governo, praticamente il tempo di indire le nuove elezioni alla fine del 1995.
Sarebbe questa la ritrovata democrazia haitiana?
Ripudiato finalmente dai suoi stessi promotori nordamericani, il regime di Cedras, Franìçois, Biamby e degli altri terribili zombi di Duvalier, si è fatto da parte. Dopo l’improbabile minaccia di una altrettanto improbabile invasione devastatrice, i generali haitiani hanno avuto una liquidazione plurimiliardaria per i servigi resi alla CIA e, dopo anni passati a massacrare il popolo e ad arricchirsi, si godono il meritato riposo a Panama, in attesa magari di presentarsi, di persona o attraverso qualche emanazione, alle elezioni presidenziali dell’anno prossimo.
Insomma, il reinsediamento di Aristide è giunto troppo tardi, perché chi non lo amava ha fatto bene i suoi calcoli.
Un plauso quindi agli Stati Uniti, che all’ultimo secondo hanno evitato una guerra e ristabilito una democrazia.
La fame non ha orecchi
“Grangou pa gen zorèy”, la fame non ha orecchi, recita il proverbio haitiano. Per la fame si è disposti a fare qualsiasi cosa, anche a dimenticare. Povero popolo haitiano, che sta “dimenticando” che chi gli dà ora da mangiare è stato, con la politica e con le azioni, chi ha contribuito alla sua rovina.
Insieme a molti amici haitiani spero di sbagliarmi, ma non vorrei che tra poco più di un anno, arrivasse già il conto di questa abbuffata di aiuti umanitari e democrazia. Aristide non potrà più presentarsi alle prossime elezioni, almeno secondo la Costituzione. Fuori Titid, amico del popolo, ritornerà a crescere e a prosperare l’erbaccia duvalierista?
Strappate le piantine, le radici sembrano essere state abilmente dimenticate sottoterra e, guarda caso, proprio da chi aveva seminato e innaffiato.