Guerra e stato di diritto
Il diritto della forza
Stato, diritto, guerra sono termini tra loro diversamente collegati, cooperanti o opposti, secondo ideologie e circostanze.
Gli stati «sovrani», più o meno democratici, sono in crisi. I loro confini, le loro istituzioni appaiono inadeguati di fronte ai processi (economici, politici, culturali, tecnologici, criminali) globali che li attraversano (e talora travolgono). Né il diritto, che ne regola funzionamento interno e reciproci rapporti, sembra in salute migliore. Might is right (forza è diritto) è la lezione che, nella lingua dell’impero, quotidianamente viene impartita. La guerra, accompagnata da edificanti aggettivazioni (da santa a umanitaria), è tornata a essere normale e micidiale strumento della politica. È anzi la misura di quanto uno Stato sia Stato, capace di difendere cioè il suo buon diritto e, anzi, il diritto tout court.
Si ripropone così, in forme appena riverniciate, un vetusto dibattito sul diritto a fare la guerra, sul diritto che ne regola le modalità, sulla sua applicabilità a soggetti, che Stati non sono, ma organizzazioni professionali e/o volontarie, mercenarie o terroristiche… E allora tornano le dispute su ius ad bellum e ius in bello.Torna il bellum iustum: la guerra giusta. Decisiva appare la bella, non nuova, trovata che il bellum è sempre iustum e le regole si attenuano, fino a sparire, quando è volto a eliminare canaglie terroriste e simili, statuali o no. È il bellum piraticum (la guerra contro i pirati, oggi diremmo i terroristi), sul quale ha detto parole definitive Cicerone. Si azzera così il sensato orientamento dello ius contra bellum (essere cioè il diritto contro la guerra), logico approdo del riconoscere nella guerra un crimine contro l’umanità. È il fondamento dell’ONU, la cui carta costitutiva infatti inizia: «Noi popoli delle Nazioni unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra…». È fondamento anche della nostra Costituzione, che la guerra la ripudia e promuove le organizzazioni che assicurino pace e giustizia tra le Nazioni.
Ancora recentemente Zagrebelsky ci ha ricordato perché morte e guerra non stanno, e non possono stare, nella Costituzione: la democrazia è il sistema politico che si basa sul provare e riprovare, sulla discussione in cerca delle soluzioni sempre più umane, adeguate ai problemi e rispettose delle ragioni degli uni e degli altri. È il regime delle decisioni provvisorie che non contempla ragioni assolute, se non quella della dignità umana e dei diritti e doveri reciproci che ne derivano. Morte e guerra sono invece l’interruzione assoluta del logos, il ritorno allo stato belluino, il confronto reciproco non colla forza delle parole e degli argomenti, ma con la violenza distruttrice. Lo stato di diritto è consapevole dei propri limiti, sia all’interno che all’esterno. Sa di non essere «sovrano» e di dover ricercare le forme via via più adeguate per garantire i diritti e libertà dei cittadini, anche attraverso rapporti sempre più collaborativi tra gli Stati.
Diritto internazionale a tutela della pace
Alla Costituzione, che doveva venire, pensava Calamandrei in un suo scritto del settembre del ’45: «È ovvio che non potrà il popolo italiano inserire nella sua costituzione norme che valgano da sé sole a creare un vincolo federale con altri popoli: come non può il singolo fare un contratto colla sua sola proposta unilaterale. Ma come gli architetti nel costruire l’ala di un edificio che dovrà essere compiuto nell’avvenire, lasciano nella parete destinata a servire d’appoggio certe pietre sporgenti che essi chiamano ammorzature, così è concepibile che nella costituzione italiana siano inserite, in direzione della federazione non ancora nata, siffatte ammorzature giuridiche, che potranno domani servire di raccordo e di collegamento con una più vasta costruzione internazionale: offerte unilaterali che mostreranno fin d’ora la nostra buona volontà, e che funzionando oggi da invito e da esempio potranno domani, quando il nostro richiamo sarà inteso, trasformarsi in intese e via via in aggregati sempre più solidi e più spaziosi». È questo un compito costruttivo del diritto, che muove dal rifiuto della guerra per realizzare aggregati sempre più solidi e più spaziosi. In essi si rende possibile una vita più giusta, nel rispetto dei diritti umani faticosamente conquistati, solennemente proclamati e in costante pericolo.
Anche a questo aspetto aveva pensato Calamandrei: «Il trasferire alla sovranità superstatuale il potere di salvaguardare il rispetto di questi diritti contro ogni attentato proveniente dalla sovranità interna dei singoli stati, questa elevazione della libertà individuale dal piano interno al piano internazionale sarebbe il più solenne riconoscimento di quella interdipendenza delle libertà che è condizione essenziale della riuscita del federalismo». È tracciata dunque da tempo una direzione nella quale Stati di diritto, degni di questo nome, debbono procedere se vogliono uscire da una crisi evidente, le cui conseguenze si avvertono nell’insicurezza, nella sfiducia reciproca e nelle istituzioni, nella mancanza di solidarietà. In tale percorso il rifiuto della guerra si fa apertura e fondamento di una diversa convivenza di donne e uomini, che si riconoscono planetari (per usare un termine caro a Balducci) alle prese con gli stessi problemi di vita e di morte, in una medesima comunità di destino. Polizia internazionale, corpi civili di pace, difesa popolare nonviolenta, diplomazia dal basso sono elementi di costruzione di un intervento per i diritti umani non affidato a carneficine di massa, spesso compiute dai paesi più ricchi, potenti e democratici nei confronti dei paesi più poveri, deboli e autoritari.
La guerra è rifiuto della giustizia
La guerra non risolve ma aggrava la crisi degli Stati di diritto, né tutela diritti umani, invocati a sua giustificazione. Neppure appare scongiurata la prospettiva di una catastrofe nucleare. Se è irragionevole pensare (alienum est a ratione secondo la Pacem in terris) che in questa era atomica la guerra possa essere usata come strumento di giustizia, bisogna anche riconoscere che distrugge ogni diritto e ogni giustizia. Costituiscono infatti esiti certi della guerra i massacri su larga scala, la violazione dei diritti degli innocenti, presenti e futuri (per gli strascichi letali a lungo termine delle armi impiegate), l’incubazione di nuove guerre e della loro escalation, il rafforzamento del complesso militare industriale (alimentato e alimentante la guerra), l’avvio e il sostegno a processi di deumanizzazione (genocidi e simili). Esito sicuro della guerra è dunque la sofferenza inferta agli innocenti, cioè la più evidente e indubitabile forma di ingiustizia. Il suo rifiuto costituisce il fondamento minimo della giustizia, come ancora ricorda Gustavo Zagrebelsky. Se è vero che non si dà pace senza giustizia è pur vero che senza rifiuto della guerra non vi è possibilità di giustizia.
«Il rifiuto della guerra è la condizione preliminare per un nuovo orientamento», scriveva già Aldo Capitini, impegnato nell’aggiunta nonviolenta all’attività politica. Il rifiuto di dare la morte, che ha la più completa e decisiva espressione nel rifiuto della guerra, non costituisce perciò un limite alla politica e al diritto, ne è anzi potenziamento e apertura. In un suo pensiero spettinato Stanislaw Jerzy Lec, osserva che il comandamento non uccidere è stato frainteso: non di un divieto si tratta, ma di una scoperta. È una scoperta che è ora di mettere in pratica.